Il destino della Goccia – un’area di trentatré ettari, di cui diciotto occupati da una foresta spontanea, situata al centro di una delle aree più urbanizzate e popolate d’Europa, e a soli sette chilometri dal Duomo di Milano – riguarda un’enorme quantità di persone, una buona parte delle quali a malapena sa dell’esistenza stessa di quest’area.
Prima di agire, prima di decidere come agire, è bene allora prendersi del tempo per esplorare e circoscrivere quali sono le aspettative e i desideri di chi attorno alla Goccia vive. Nell’ambito di una più ampia ricerca etnografica, la cooperativa di lavoro Kilowatt, una delle variegate realtà presenti nell’Osservatorio La Goccia, ha sottoposto a cittadine, cittadini e organizzazioni presenti sul territorio una serie di domande che vanno a toccare tematiche molte ampie. «Da queste interviste è emersa in maniera forte la necessità di coinvolgere le nuove generazioni in questo processo» mi racconta Cecilia Colombo, project manager di Kilowatt. «Innanzitutto perché saranno le ragazze e i ragazzi di oggi che più di tutti frequenteranno questo luogo nel futuro. E poi perché gli adolescenti sono la categoria che, nella città contemporanea, ha meno opportunità di esplorazione, di ricerca, di conoscenza al di fuori del sistema educativo istituzionale.»
È per cominciare a dare concretezza a questa suggestione che è nata l’idea di creare una residenza etnografica dedicata agli adolescenti, permettendo cioè a un piccolo gruppo di ragazze e ragazzi di accedere alla Goccia, esplorarla, entrarci in contatto, viverla. O per dirla con le parole di Colombo: «Sono state quattro giornate di educazione non formale outdoor, tattiche artistiche, processi di comunità, che hanno avuto l’obiettivo di far vivere alle ragazze e ai ragazzi in maniera immersiva e per un tempo limitato la Goccia, per poter poi raccogliere l’immaginario che ci avrebbero restituito i loro sguardi». Un immaginario che potrà così essere uno dei punti di partenza per definire la Goccia del futuro.
A ideare questo viaggio è stata l’artista performativa Caterina Moroni, la cui ricerca si colloca all’intersezione tra pratiche partecipative, luoghi non convenzionali e coinvolgimento delle comunità.
Purtroppo, non ho potuto incontrarla sul campo ma in call, così posso solo immaginare, guardando la documentazione fotografica e ascoltando le sue parole, questo gruppo di adolescenti (una decina di ragazze e ragazzi tra i tredici e i ventidue anni, parte dei quali proveniente dal centro di aggregazione giovanile Il Poliedro di Villapizzone) a cui sono state spalancate le porte della Goccia, un mondo altro e contraddittorio, diverso da qualsiasi cosa abbiano mai sperimentato in città, eppure parte costituente di quella stessa città in cui vivono.

Ciao Caterina. Prima di tutto mi chiedevo come ci fossi finita, da non milanese, all’interno della Goccia.
Sono stata contattata da Kilowatt perché anni fa avevano assistito a un mio spettacolo, a Modena, che coinvolgeva un gruppo di bambini e che aveva come tematica di fondo il cambiamento climatico, la sopravvivenza in questo mondo complicato. Così, quando hanno deciso di portare un gruppo di adolescenti all’interno della Goccia si sono ricordati del mio lavoro.
Qual è stata la tua idea?
Ho voluto coinvolgere i ragazzi come esploratori del sensibile, quindi farli entrare nella Goccia per percepire lo spazio, sentire. Entrare senza risposte, soltanto per osservare, e non già conoscere o etichettare. Quasi tutte le attività le abbiamo poi ideate insieme, concordando quello che avremmo fatto. È stato un vero e proprio gruppo di lavoro. Il bello di questo tipo di progetti è che è impossibile tenere sotto controllo gli sviluppi quando poi partono. Non ero interessata a proporre un laboratorio per i giovani, ma volevo condividere con loro un’esperienza, perché per me è nel fare insieme che poi si creano le relazioni.
Partiamo allora dal nome che hai dato alla residenza: “Come gocce”.
È stata un’intuizione che ho avuto subito, un collegamento che ho fatto con una frase di Lorenzo Orsetti, il Comandante Orso [antifascista fiorentino morto a poco più di trent’anni combattendo a fianco della milizia curda YPG in Siria]: «Ogni tempesta inizia con una singola goccia». Ognuno di noi da solo è una piccola cosa, ma possiede un grande potere: può generare un’azione collettiva.
Il primo giorno abbiamo consegnato ai ragazzi e alle ragazze un quadernino, come se fosse un passaporto per entrare, un misto tra un diario privato e il quaderno di un esploratore, e sulla prima pagina abbiamo scritto «ogni tempesta inizia con una singola goccia». Di lì in avanti, abbiamo sempre tenuto presente questo motto e abbiamo lavorato insieme sul concetto di tempesta, tempesta intesa appunto come quel possibile cambiamento che, tutti insieme, possiamo generare.
Abbiamo trattato il bosco della Goccia come un simbolo, come la metafora di qualcosa da difendere, di qualcosa che non vogliamo che venga toccato.
E nel concreto in che cosa è consistita questa esplorazione?
Ogni giorno attraversavamo la soglia della Goccia ponendoci una domanda silenziosa, poi con un gesto rituale lasciavamo cadere la nostra goccia al suolo. L’idea era quella di entrare a cuore e a mente aperta, cercando di leggere i segni che ci arrivavano dall’esterno.
Una delle prime attività è stata il patto di gruppo, un momento fondante nella creazione di qualsiasi comunità temporanea: un vero accordo, progettato e siglato da tutti, che conteneva quelli che erano per noi i princìpi dello stare insieme. Si andava dal rispetto alla pazienza all’onestà, tutti dovevamo essere d’accordo su ogni aspetto.
Poi, sempre quel primo giorno, abbiamo fatto un picnic, con la coperta e tutto il resto, per cominciare ad ambientarci. E una lunga esplorazione silenziosa, e sottolineo questo aggettivo – “silenziosa” – perché il silenzio con un gruppo di ragazzi di quell’età è stato abbastanza sorprendente: significa che erano davvero coinvolti.
In seguito, hanno conosciuto una serie di persone che ci sono venute a trovare, da una botanica a un architetto a un signore anziano della zona che aveva molte storie da raccontare, spesso attraverso delle dinamiche un po’ gamificate, per fare in modo di tenere alto il livello di attenzione dei ragazzi.
L’ultimo giorno, infine, ci sono venute a trovare alcune persone dall’esterno, e ci siamo persi nella foresta con loro.

Capsule del tempo create durante la residenza artistica
Queste attività hanno portato anche a due momenti che mi sembrano molto significativi, perché non sono rimasti circoscritti al tempo e al luogo in cui vi trovavate, ma erano proiettate verso l’esterno. Mi riferisco alle lettere che i ragazzi e le ragazze hanno scritto e poi inviato a una serie di personalità pubbliche e alle cosiddette “capsule del tempo”. Come ci siete arrivati e che cosa sono?
Il primo giorno ho chiesto ai ragazzi di scegliere un elemento all’interno della Goccia, un elemento qualsiasi. Tra quelli scelti ci sono stati una pozzanghera, un palo della luce, una radice, un muro di mattoni... I ragazzi hanno poi frequentato il proprio elemento, ci hanno “fatto amicizia”, lo hanno ascoltato, ci hanno fatto un selfie insieme. Si sono lasciati penetrare dall’elemento, finché, alla fine, sono potuti diventare un canale delle sue parole.
L’ultimo giorno ho quindi chiesto ai ragazzi di andare ognuno dal proprio elemento e di stare lì finché non riuscivano ad ascoltarlo e poi a scrivere le sue parole. Gli ho consegnato un incipit: “Io sono... e ti scrivo per diri che..”, e gli ho detto che i loro scritti sarebbero diventati delle lettere che avremmo spedito ad alcune personalità che, in qualche modo, possono agire sul futuro della Goccia: il Politecnico, il Comune, l’Osservatorio, le scuole dei dintorni... Potevano scrivere tutto ciò che volevano, l’unica regola è che dovevano farlo come se le frasi fossero dettate dall’elemento.
Quindi all’interno delle lettere i ragazzi non facevano richieste specifiche?
Erano principalmente testi descrittivi, anche leggeri se vogliamo. Ricordo un palo della luce che raccontava quello che vedeva una volta e quello che vede adesso. Oppure la radice che parlava dello sforzo che compiva per crescere nel cemento. Una persona ha scelto come elemento un edificio e ha immaginato che un tempo fosse un posto di produzione, che contenesse dei macchinari, e spiegava come sarebbe bello se funzionasse ancora...
La mia idea era di mettere in campo un dispositivo poetico che poi diventasse anche politico, perché le lettere le abbiamo inviate a chi può decidere o cambiare le sorti della Goccia, e sono state mandate così come sono state scritte, senza modifiche.
La cosa interessante, dal mio punto di vista, è che l’unica cosa che veniva davvero richiesta dai ragazzi era attenzione. Un’attenzione sottile e sensibile. Ti sto chiedendo di fermarti e ascoltare di più, di ascoltare persino le parole di chi in genere non ha voce, cioè gli adolescenti, persino le parole degli elementi che ci circondano. A volte non bisogna per forza fare qualcosa, si deve solo fermarsi e guardare meglio.
Mi interessa molto l’ultimo concetto di cui hai parlato, il fatto che per agire bene è necessario prima fermarsi e ascoltare. Come hanno reagito i ragazzi a queste giornate dove tutto andava lento, in cui erano isolati? È un po’ il contrario del contesto urbano in cui vivono.
I ragazzi non ci erano abituati, perché la loro vita va molto veloce, perché è fatta di un continuo scrollare. Ma non solo la loro, anche la nostra è così. Per questo il fatto di prendersi tutto il tempo necessario per ascoltare un elemento, avere un’attenzione così sottile e sensibile, era per me molto importante, perché è un qualcosa che raramente si ha il lusso di sperimentare.
Quando arrivava sui cellulari una notifica dall’esterno, notifiche che non potevamo evitare per quanto cercavamo di tenere i telefoni nascosti, non utilizzati, ci eravamo dati una regola: ci bloccavamo e guardavamo il cielo per un attimo. Abbiamo scelto di non farci spazientire dalle ingerenze del mondo esterno, ma, anzi, di viverle come un’opportunità per poter scrutare il cielo come facevano gli antichi. Era anche un modo per prenderci il tempo di guardare qualcosa che ormai non osserviamo più.

Una delle lettere scritte dai ragazzi che hanno partecipato al laboratorio © Cecilia Colombo
Poi le lettere le avete effettivamente spedite.
L’ultimo giorno abbiamo preparato una sorta di ufficio postale, le abbiamo imbustate insieme, abbiamo scritto gli indirizzi. Devi pensare che per questi ragazzi non hanno mai ricevuto e non hanno mai spedito una lettera. Volevamo utilizzare un mezzo che sta per scomparire, come analogia con il fatto che anche la Goccia potrebbe scomparire.
Su questo aspetto, ti racconto una scena tenera: quando è arrivato il momento di applicare i francobolli, una ragazzina ha pensato che fosse un adesivo, l’ha usato per chiudere la busta, perché non aveva idea che servisse un francobollo per spedire una lettera.
E le capsule del tempo che cosa sono? Guardando le foto, sembrano un po’ delle bocce per i pesci rossi, di quelle che a volte si vedevano nei fumetti della nostra generazione – non so se è ancora così.
Per arrivare alle capsule del tempo sono partita dal presupposto che ci fosse bisogno di usare la forza del rito per comprendere meglio quel luogo, “sentirlo” più che comprenderlo, perché “comprendere” include la razionalità.
Abbiamo chiesto ai ragazzi di immaginarsi tra dieci anni – che a noi sembra tanto tempo, ma invece per la Goccia, per i tempi necessari alla sua rigenerazione, non è tanto – e di scrivere un biglietto a sé stessi. Un messaggio semplice, un incoraggiamento. E poi di scrivere un altro messaggio per la Goccia stessa, di scrivere a quello che sarà la Goccia tra dieci anni. Poi hanno inserito i due biglietti nelle bocce, in queste capsule del tempo, insieme a un piccolo oggetto trovato all’interno dell’area, i selfie che si sono fatti con il proprio elemento e qualunque altra cosa volessero. L’idea è che non siamo solo noi a custodire il bosco della Goccia, ma che può esserci un mutuo scambio, che forse è il bosco della Goccia a custodirci, ad aiutarci.
L’ultimo giorno, insieme alle persone che sono venute a trovarci, siamo andati a depositare le capsule del tempo tra le radici di un albero. A me piace pensare che questa attività possa essere ampliata, che la Goccia possa diventare il custode dei desideri, dei ricordi delle persone del quartiere, o della città. Che chiunque in futuro possa andare a lasciare la propria capsula lì dentro, come un museo un po’ paradossale di sogni.
Ho una curiosità, da persona che abita il territorio. Per tutti noi la Goccia è un luogo molto particolare, perché è enorme ma irraggiungibile, sai che è lì, ma non ti capita mai di avvicinarti. Esiste ma non esiste. Qual è stata la reazione dei ragazzi, una volta entrati?
Bisogna tenere presente che nella quotidianità il loro confronto con la natura, con il verde, è veramente minimo, e che la Goccia è un luogo complesso, molto onesto, ma per niente comodo né confortante, fatto di grandi contrasti. Quando sono andati a scegliere il proprio elemento, io immaginavo che avrebbero scelto qualcosa di naturale, invece la maggior parte di loro ha optato per delle rovine, o comunque per qualcosa lasciato dall’uomo. Forse è stata una scelta anche per loro in qualche modo confortante. Allo stesso modo, quando gli abbiamo chiesto di andare a cercare dei luoghi-totem, quasi tutti hanno scelto spazi in cui c’era del cemento. Invece l’ultimo giorno, quando abbiamo portato le persone in questa passeggiata, ci siamo volutamente persi nella natura. Mi è restato impresso un ragazzino che il primo giorno non voleva nemmeno sedersi per terra durante il picnic, e che invece prima di andarsene l’ultimo giorno si stava rotolando nell’erba.
Quindi hai visto un’evoluzione...
Sì, penso di poter dire che è stato un viaggio di trasformazione. Intanto perché non siamo entrati dentro con delle risposte, quindi tutto quello che è avvenuto è stato accolto. Ma anche come gruppo c’è stata una grande trasformazione, al termine del viaggio li ho visti toccarsi, avvicinarsi anche fisicamente, scambiarsi sguardi di intesa. Invece all’inizio la situazione era molto ingessata, erano un po’ in difficoltà, forse anche per la particolarità della proposta e del luogo. Nel gruppo WhatsApp che abbiamo fatto per tenerci in contatto all’interno della Goccia ci sentiamo ancora.
Un’ultima domanda. Ogni persona con cui parlo che ha avuto l’opportunità di accedere alla Goccia ha avuto impressioni diverse, ma tutti concordano nel ritenerlo un luogo particolarissimo, ricco di contraddizioni e molto stimolante. Qual è stata la tua prima impressione?
Per via del mio lavoro, sono abituata a luoghi non convenzionali, sono un’appassionata e un’esperta del perdersi, ma sono d’accordo, anch’io penso che la Goccia sia un luogo molto particolare. Credo incarni il concetto di “sogno lucido”. L’ho trovata per niente confortante, e quindi interessante, fatta di contrasti forti, esattamente come noi esseri umani. Anzi, ho avuto l’impressione che entrando in quel posto ci si possa riconoscere, che sia un po’ come tornare a casa. Che la Goccia sia fatta proprio di quello di cui siamo fatti noi, di passato, presente, futuro, ma anche di scorie, di tensione, di desiderio, di crudeltà, e soprattutto di ciò che ci rende più umani: l’incoerenza.
Michele Turazzi. Michele Turazzi vive a Milano e lavora nell’editoria. Ha pubblicato il romanzo Prima della rivolta (nottetempo 2023, vincitore del Premio Demetra per la letteratura ambientale 2024) e il reportage narrativo Milano di carta (il Palindromo 2018).
