Affogano le nazioni, crollano le torri, un caos
di lingue e colori, traumi e nuovi amori,
entra alla Bovisasca, spazza via il novecento
della solitudine maestra, del nostro verso
sospeso nel vuoto. Altre donne si aggirano
tra gli scarti del mercato, nella nuova miseria
di questo istante. Io siedo al caffè sottocasa,
guardo il paesaggio che fu di Sironi, in un solitario
dodici agosto, inizio a convocare le ombre.
Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza
di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.
E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria
a tre secondi dalla fine. E Roberta
che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,
in un silenzio di ospedali, quando il tempo
rivela i suoi grandi paradigmi.
“Torneranno vivi gli amori tenebrosi
che in mezzo agli anni lasciarono
una spina, torneranno, torneranno luminosi.”
Apriamo l’intervista con una poesia di Tema dell’addio (Mondadori, 2005), scritta anni fa, nel periodo in cui Milo De Angelis ha abitato in via Bovisasca, che è il lembo più estremo, quasi un territorio a sé, rispetto a quello che viene comunemente inteso come “Bovisa”, dove da qualche anno il poeta abita. Va detto che Milano è un universo stratificato di ricordi vissuti, per un poeta che ha abitato in diverse zone della città, da viale Majno, in cui è nato nel 1951, passando per corso Lodi, via Varesina e infine la Bovisa.
Come già si ricava dal racconto del quartiere fatto dal poeta Maurizio Cucchi, che in Bovisa ha abitato durante l’infanzia negli anni ’50, l’area comprendeva una zona più residenziale immediatamente a nord di viale Jenner, solcata dall’asse di Via degli Imbriani. Casualmente, in epoche diverse quella zona è stata residenza sia di Cucchi che di De Angelis (e per quest’ultimo lo è ancora). In Bovisa De Angelis ha vissuto in diversi momenti della sua biografia, prima per esplorazioni cinematografiche – è leggendaria la passione per il cinema di De Angelis, che ha visto film praticamente in tutte le sale di Milano, molte delle quali sono oggi scomparse– poi per un periodo soggiornando in via Bovisasca e poi approdando a via degli imbriani.
Milo De Angelis, cominciamo dai primi ricordi del quartiere. L’elemento del paesaggio periferico è molto importante nella tua poetica, partiamo dal vissuto personale, le prime passeggiate da Flâneur adolescente verso la Bovisa..
Per arrivare in Bovisa, dove abitava un mio caro compagno di classe ai tempi della scuola media, prendevo un tram che attraversava Milano da sud a nord, da piazza Tirana a piazza Bausan. Era il tram numero 8, con i suoi vecchi carrelli degli anni Trenta e i suoi sedili in legno, anzi un unico sedile che scorreva dall’inizio alla fine, dove a volte per trovare posto occorre restringersi, fermo restando l’obbligo di alzarsi di fronte a una persona anziana, obbligo da rispettare a tutti i costi: ne andava l’onore, oltre al rimprovero di tutti i presenti! Il confine tra due mondi era Piazzale Lugano, dove passava (e passa ancora oggi) il filobus 90/91, già allora famoso per una certa animazione che lo distingueva e per ogni genere di furti e di scippi: “el bus de’ làder”, come diceva Franco Loi. Ecco, la circonvallazione della 90/91 rappresentava una frontiera materiale e spirituale. Superata quella linea, si entrava nei mondi arcani della Periferia, dove potevano accadere mille cose ignote a un ingenuo ragazzino. Poteva accadere ad esempio – e accadde davvero nel 1964 – di vedere un film di Luigi Comencini, La ragazza di Bube, che non volevo assolutamente perdere, dopo avere letto il romanzo di Cassola, e che apprezzai molto, con una Claudia Cardinale luminosa e bellissima. D’altra parte tra i cinema periferici il Perla godeva di una meritata fama, era quasi considerato un cinema d’essai e lì ebbi modo di scoprire film importanti come Il gattopardo di Visconti, Il mucchio selvaggio di Peckinpah e persino uno dei primi film di Ingmar Bergman, Monica e il desiderio, nel 1967. Potete immaginare la mia emozione quando venni a sapere, molti anni dopo, che il poeta e amico Maurizio Cucchi aveva abitato proprio nel palazzo del cinema Perla!

© Un ponte tra più città Laboratorio di Progettazione Partecipata nel Quartiere Isola (MI)
Il tuo primo film visto al cinema però è stato – lo hai raccontato in un’intervista - Rocco e i suoi fratelli, del quale qualche scena è girata in Bovisa, se non erro. Lo avevi visto al Cinema Duse di via Varé.
È vero, in Bovisa sono ambientate alcune scene memorabili di Rocco e i suoi fratelli, come la violenza fatta da Simone a Nadia sotto il Ponte della Ghisolfa e lo scontro tra i due fratelli. E poi la Bovisa del primo Novecento ha ospitato molte fabbriche legate allo spettacolo, che ne fecero la prima rudimentale Cinecittà italiana, oltre alla Fabbrica della Scala, viva e operante fino a pochi anni fa in via Baldinucci.
Per quanto riguarda il cinema Duse, raccontavo nel libro di interviste La parola data – dove parlo spesso di Milano – che questo cinema è l’unico sfuggito alla mia ferma decisione di fanciullo di conoscere uno per uno tutti i cinema della città, nessuno escluso, che allora erano più di centotrenta: Abadan, Abanella, Abanera, ABC Abel, Abruzzi, Adriano, Alcione e via dicendo…ancora oggi so a memoria l’elenco. Ebbene, li ho effettivamente visti tutti, tranne il dannato Duse, dove per un motivo o per l’altro non sono riuscito a entrare. Una volta, quando avevo deciso di vedere Il buio oltre la siepe nel 1966, mi è venuta l’influenza; un’altra volta, nel 1960, avevamo stabilito con papà, mamma e mio fratello di uscire insieme per La grande guerra di Monicelli, ma ecco che mio padre prese la cartina e affermò, inflessibile: “No, troppo lontano”.
E infine, nel 1961, avevo deciso di rivedere Rocco e i suoi fratelli, che avevo già ammirato al cinema Eolo di via Mac Mahon, ma venni convocato d’urgenza da un compagno di classe per una partita di calcio. Insomma, tutto si è accanito sull’incontro tra me e il Duse: e oggi osservo con una vena di malinconia la bella palazzina di Via Varé 23, dove la sala era situata, fino al giorno della chiusura definitiva nel 1985.
Spesso hai citato i paesaggi dipinti da Sironi: corrispondeva a quell’immaginario, a quel sentimento del pittore, l’incontro reale con i luoghi della Bovisa? O avevi già in mente altre letture o suggestioni culturali riguardo alla Bovisa?
La Bovisa raduna in sé diverse epoche. Nasce contadina, come il riferimento ai buoi del suo nome fa intuire; poi diventa industriale, con il polo chimico più importante del paese e i quadri futuristi che testimoniano un pullulare di case geometriche; assume infine un tono studentesco e ultramoderno con i suoi laboratori aerospaziali. Ognuno di questi passaggi epocali lascia tracce che tuttora permangono: dalla cascina Albana ai gasometri e ai ruderi industriali fino ai graffiti e ai murales sparsi per via Enrico Cosenz e dintorni, testimoni di una presenza pittorica e fotografica persistente, da Sironi a Guaitamacchi, da Ermanno Olmi – Il ragazzo della Bovisa – a Gabriele Basilico, a Chiaramonte, ai tanti artisti che hanno deciso di abitare in questo quartiere. A tutti questi aggiungerei quell’artista del calcio che fu Osvaldo Bagnoli, anche lui figlio della Bovisa. Sì, come hai giustamente intuito, quando ho scelto di rimanere qui, sapevo che mi sarei immerso in una vera e propria assemblea di secoli ed ero ben contento di vivere nell’intreccio dei vari stili del Moderno.
C’era differenza in quegli anni giovanili delle tue esplorazioni milanesi – tra i ‘60’ e ’70 - tra Bovisasca e Bovisa? Cucchi racconta che ai suoi tempi, anni ’50, la Bovisasca aveva una nomea negativa, a livello sociale.
Anch’io ho pensato a una sfumatura spregiativa nel nome “Bovisasca”, quasi si trattasse di una Bovisa “cattiva”, che raccoglie in sé il peggio del quartiere. E in effetti, varcata la soglia di Piazza Alfieri, sembra di entrare in un altro mondo: spariscono i negozi - così fitti in via Mercantini, in via Varé, in via Candiani, in via Andreoli – e tutto acquista un tono scabro, essenziale, persino cupo, se penso al muraglione che arriva fino a via Cosenz, come se la città si fosse svuotata all’improvviso e rimanessero solo le sue strade. Ho vissuto per sei anni in via Bovisasca 85 e ricordo che per qualunque minima cosa occorreva uscire di casa e prendere la macchina oppure il filobus 92 verso la Stazione Centrale: non c’era un’edicola, un bar, un ristorante, non c’era nulla; e soprattutto di sera si aveva l’impressione vagamente bellica del coprifuoco. Poi le cose sono migliorate, con quel luogo benedetto che si chiama “Spirit de Milan”, a cui ogni milanese deve augurare una lunghissima vita, e il buio di via Bovisasca ha trovato qualche bagliore. Ma io, nel frattempo, avevo già cambiato casa e mi ero trasferito con Viviana e la gattina Luna in via degli Imbriani 31, che in confronto mi appare come un vortice di presenze ed energie. Quante cose ho scoperto in questi anni! Dal coloratissimo Nihilo con la sua frutta e la sua verdura sempre fresca, alla storica cartoleria affollata di studenti, ai negozi di fiori che allietano il passaggio, al Libraccio e alla Biblioteca di via Baldinucci, ai profumi di Lillo e della Bomboniera e soprattutto a quelli di Naxos, un po’ più in là, magnifico ristorante di pesce dove ho ambientato una poesia, alle tante iniziative della Scighera e a quel coltissimo calzolaio di via Varé che citava a memoria i versi di Carlo Porta, mentre a qualunque ora si ode sferragliare lietamente il tram numero 2, quello che arriva fino ai Navigli.
Infine ti chiederei un commento sul progetto di tutela che riguarda “il Bosco della Goccia” e se è un luogo che associ a quegli anni alla Bovisasca con cui confina. Tra l’altro proprio il bosco e la struttura industriale abbandonata è presente in Sulla punta di una matita, il documentario sulla tua Milano girato da Viviana Nicodemo.
Ho letto le pagine che mi hai inviato sulla Goccia e sono interamente d’accordo con chi le ha scritte, Ivan Carozzi, autore di un magnifico ritratto di questo luogo, lirico e struggente, drammatico e fiabesco, antico e contemporaneo, come certe scene di Tarkovskij, giustamente citato. Per certi aspetti il senso e il destino della Goccia mi ricorda quello della Montagnetta di San Siro, dove si mescolano memorie storiche e archetipi assoluti. Entrambi sono mondi paralleli, carichi di mistero e di silenzio, di memoria e di feroce attualità. L’idea poi di popolare la Goccia di sculture mi avvicina ancora di più a questo progetto di salvaguardia e rinascita di un luogo reale e insieme magico, figlio della grande Storia e della breve storia di ognuno di noi.

© Camilla Morino
Mario De Santis. Mario De Santis nato a Roma vive a Milano dal 2001. Giornalista, si occupa di libri da molti anni, ora segue soprattutto poesia e contemporaneo. Scrive per TuttoLibri, Repubblica, Huffingtonpost, Doppiozero e altre testate. Ha scritto quattro raccolte di poesie, l’ultima è “Corpi Solubili” (2023, GiallaOro Pordenonelegge)
