Le immagini, i segni e i loghi che hanno caratterizzato la storia della Bovisa e dell’odierna Goccia non hanno mai smesso di vivere in un complesso rapporto con il centro di Milano. È una storia lunga, che parte da molto lontano.
Nel maggio 1946, appena un anno dopo la Liberazione, la città viene raccontata sulle pagine de Il Politecnico di Elio Vittorini come un luogo abitato da fantasmi. Nell’articolo, scritto da un giovane Luigi Crocenzi si parla del capoluogo lombardo come di un corpo crivellato. «Morì quella città»(1) dice Crocenzi accennando alle ferite della guerra e alla Galleria Vittorio Emanuele crollata sotto i colpi dei bombardieri della RAF. Le ferite ancora aperte negli edifici della città diventano, nelle parole dell’autore, una metafora efficace per descrivere la lacerazione dell’anima e la crisi d’identità di quella città «che forse più di ogni altra aveva creduto nell’eternità borghese del mondo, nella fetta di panettone per tutti e nel sorriso infantile della Madonnina.»(2) La Milano di Crocenzi nella primavera del 1946 è una città delusa, che realizza troppo tardi di aver preso un abbaglio assecondando la visione di progresso e di civiltà proposta dal Ventennio fascista.
Tuttavia, la Milano moribonda a cui guarda Crocenzi è in particolare una porzione della stessa, il centro della città, il suo cuore pulsante, il teatro della borghesia e degli affari che, a un anno dalla fine del conflitto, appare infestato da fantasmi di un passato mai davvero concluso. «Morì quella città. Ma ancora sopravvive il fantasma, le ombre di tutti coloro che profittarono delle sue illusioni ancora si aggirano […]. Ostinati a non credersi morti si scambiano inchini, si congratulano delle loro pomate e dei loro panni ingualcibili, si fanno omaggi di fiori.»(3)
A corredo dell’articolo, Crocenzi – che negli anni a venire diventerà uno dei principali teorici della narrazione fotografica –(4) costruisce una doppia pagina densa di fotografie, un mosaico di immagini in bianco e nero nel quale la Milano borghese e fantasmatica è raccontata con lo sfavillio delle vetrine e dei manifesti pubblicitari. In questo modo Crocenzi sembra già intuire i rischi del delicato momento di transizione vissuto dall’Italia del dopoguerra. Quasi anticipando i pensieri corsari pasoliniani, individua una pericolosa transizione dall’illusione fascista alla promessa consumistica.
D’altra parte, mentre viene pubblicato l’articolo, proprio a partire dal capoluogo lombardo, si cominciano a gettare le basi della ripresa economica nazionale e si consolida l’IRI – l’Istituto per la Ripresa Industriale.

Luigi Crocenzi, Occhio su Milano, Il Politecnico, n. 29, 1 maggio 1946.
Per quanto non compaia nel racconto fotografico di Crocenzi c’è un luogo simbolo nel centro della città, non distante dalla celebre Galleria cittadina, che meglio di altri ha saputo rappresentare il passaggio dalla propaganda fascista alle pubblicità del successivo boom economico: Palazzo Carminati. L’edificio tardo ottocentesco dirimpettaio del Duomo di Milano negli anni del regime ha funzionato come plancia per la propaganda fascista. In uno scatto della fine degli anni Venti si vede un’archigrafia alta tre piani ancorata alla parete del palazzo nella quale giganteggiano le tre lettere della parola “DVX” nella foggia di capitali romane. Un’altra fotografia, scattata solo qualche mese più tardi rispetto all’articolo de Il Politecnico, mostra la stessa parete luccicante di insegne al neon e di palizzate pubblicitarie, abitata da loghi e affiche: al tempo stesso materializzazione della rinascita economica e paradigma visivo di quella classe borghese che non aveva convinto del tutto Crocenzi.

Palazzo Carminati durante il ventennio. Fonte: https://www.leparoleelecose.it/il-bosco-bianco-poesie-e-altri-scritti/

Un uomo legge il giornale sotto le luci al neon di Palazzo Carminati. Fonte: Urban File
Tra gli anni Cinquanta e Novanta del secolo passato la facciata del palazzo è stata abitata da insegne, da veri e propri manifesti pubblicitari al neon, da loghi riadattati per lampeggiare in quella che Bruno Munari chiamava giustamente “la nebbia di Milano”. Tra i loghi che nel corso degli decenni si sono alternati puntellando la superficie di Palazzo Carminati e illuminando come presenze spiritiche le notti milanesi, ce ne sono alcuni che sono diventati particolarmente familiari agli occhi degli abitanti: i logotipo bold – quindi abbagliante – del Cinzano, le ipnotiche spirali rosse dell’amaro Cora, la silhouette della donna Kores che batteva a macchina usando la carta copiativa.
Nel 1999, sotto la giunta Albertini le insegne luminose e i loghi lampeggianti che fino ad allora avevano abitato Piazza Duomo, tra malumori ed entusiasmi, vengono smantellati da Palazzo Carminati a seguito di una campagna a favore del decoro urbano.
Qualche anno dopo la sparizione delle insegne luminose da Piazza Duomo, tra il 2004 e il 2012, Lawrence O’Toole avvia il blog Ghost Sign Project, con l’intento di mappare scritte pubblicitarie murali sbiadite nella città di Philadelphia. Le insegne erose registrate da O’Toole mostrano la presenza nella memoria collettiva di logotipi, lettering, slogan ancora vividi nonostante il deterioramento materiale. Avendo a mente tanto la storia di Palazzo Carminati quanto le profezie di Crocenzi, il progetto Ghost Sign sembra parlarci: le insegne passano, i loro fantasmi restano.

I neon della piazza Duomo di un tempo. Fonte: Urban File
Tra i fantasmi al neon che hanno abitato Palazzo Carminati, una delle presenze più memorabili riguarda la sagoma animata di un uomo in abito che ammira le sue scarpe tirate a nuovo: la mascotte del lucido per calzature dell’azienda Brill, disegnata a cavallo tra anni Venti e Trenta per un manifesto pubblicitario dal cartellonista Giorgio Muggiani – artista pubblicitario e co-fondatore del Football Club Internazionale Milano nel 1908. L’anonimo uomo in abito e cappello a falda che si compiace della brillantezza delle proprie calzature promuove nel luogo più centrale della città il lucido prodotto appena sei chilometri più a nord di Piazza Duomo, nel quartiere Bovisa.

Il lucido da scarpe Brill, prodotto in uno stabilimento in Bovisa.
BRILL, AEM E GLI ALTRI LOGHI DELLA BOVISA
Bovisa, un tempo borgata indipendente, diventa quartiere di Milano nel 1873. Attraversata dalle nuove linee ferroviarie che la slanciano verso nord, proprio in questo periodo storico comincia a lasciarsi alle spalle la vocazione agricola, palese nel suo nome, per abbracciare una nuova identità industriale. È qui, in uno stabilimento che affaccia proprio sui binari delle Ferrovie Nord nella Bovisa milanese di inizio Novecento, che nasce la Fabbrica Lucido Brill, subentrando alla ditta Parma & Landriani, fino a poco prima azienda produttrice del lustro per scarpe Ecla. Oltre al celebre lucido, l’azienda Brill propone sul mercato cere per pavimenti e mobili, insetticidi, saponi e altri prodotti chimici.
Nell’area circostante alla Brill, attorno al 1880 comincia infatti ad addensarsi la migliore industria chimica italiana. In Aura di Bovisa, un volume cruciale per approfondire la storia industriale locale, Giorgio Fiorese sostiene che è proprio a Bovisa che nasce l'industria chimica nazionale.5 C’è anche un anno preciso, il 1882, a partire dal quale, con l’inaugurazione del primo grande impianto di acido solforico dell’azienda Giuseppe Candiani, cominciano a insediarsi diverse industrie rendendo la zona nord ovest di Milano il più importante polo italiano del settore per gran parte del Novecento. Poco prima dell’arrivo di Brill, i concimi industriali del marchio Sessa Cantù, i saponi Sirio, le vernici dell’azienda Edoardo Piatti, i farmaci Carlo Erba, oltre ai prodotti chimici Candiani, cominciano a diffondere nel mercato di settore la dicitura Bovisa Milano.
Nel corso dei decenni, alla produzione chimica si affiancano anche altri settori merceologici, alimentati da una vivace comunicazione commerciale. La Bovisa finisce così per raccontare in presa diretta l’evoluzione della grafica italiana: dal cartellonismo pittorico di Leopoldo Metlicovitz per le coperture impermeabili dell’azienda Ettore Moretti, all’astrattismo geometrico architettato da Luigi Veronesi per l’industria Vernici Italiane IVI negli anni Trenta, fino al modernismo dei fotomontaggi prodotti da Albe Steiner per i farmaci Lepetit o da Max Huber per la produzione industriale di pannelli in legno Feltrinelli Masonite. I manifesti che venivano incollati sui muri del centro – gli stessi a cui accennava Crocenzi nel suo articolo del maggio 1945 – riportavano sempre più spesso nomi di ditte nate o stanziatesi nel distretto industriale della periferia nord ovest di Milano.

Immagini tratte dal volume Aura di Bovisa

Immagini tratte dal volume Aura di Bovisa
Proprio all’interno di questo fermento industriale, nel 1905, con l’avvio di un primo monumentale gasometro, viene inaugurato dall’Union des Gaz de Paris quello che diventerà il più grande stabilimento per produzione e distribuzione del gas e lavorazione sottoprodotti su scala nazionale. Effettivamente a inizio secolo in città esiste una domanda sempre più crescente di gas e l’azienda francese, con il propellente gassoso prodotto dalla distillazione del carbone, riesce a garantire un’illuminazione pubblica sempre più capillare, che significa luce nelle abitazioni private e forza motrice per le industrie. Le Officine Gas Bovisa diventano una vera e propria cittadella industriale costruita attorno al gasometro, occupando la maggior parte dell’area delimitata dai binari: da un lato quelli della Ferrovia Nord (Milano–Saronno), dall’altro quelli della Ferrovia di Stato (Varesine). Le linee ferroviarie finiscono così per conferisce allo stabilimento una forma che ricorda una fiammella di gas. Col tempo, però, tutti hanno iniziato a chiamarla “Goccia” preferendo, ironia della sorte, l’immagine del fluido liquido a quella del fluido gassoso.
Le Officine Gas Bovisa per gran parte del Novecento mantengono il primato nella produzione e distribuzione di gas, passando nel 1920 alla Società Gas e Coke, nel 1931 alla Edison; solo attorno agli anni Settanta, con la diffusione del metano, vivono un primo momento di crisi. A inizio anni Ottanta il consiglio comunale milanese decide di estendere i compiti dell'’Azienda Energetica Municipale – AEM, attuale A2A – e con l’intento di municipalizzare il servizio del gas subentra a Edison nella proprietà dello stabilimento. Sfruttando la rete sotterranea di gasdotti e metanodotti e ampliandola al fine di “metanizzare” e “teleriscaldare” la città, AEM si trasforma da impresa elettrica a energetica. Non a caso per farlo si rivolge a un graphic designer che conosce talmente bene il sottosuolo da guadagnarsi tra i colleghi il soprannome “la talpa”: Bob Noorda.
A dire il vero Noorda non conosce bene solo il mondo “underground”, ma conosce altrettanto bene le vite dei loghi, la loro morte terrena e la loro permanenza fantasmatica nella memoria collettiva. Quasi venti anni prima di venire contattato da AEM, al principio degli anni Sessanta, il grafico di origini olandesi, arrivato in Milano nel 1954, comincia a lavorare con gli architetti Franco Albini e Franca Helg alla progettazione dell’identità visiva e della segnaletica della prima linea della metropolitana milanese inaugurata nel novembre 1964. L’approccio funzionalista appreso negli anni di formazione, trova applicazione in numerosi dettagli del progetto: lo studio dei flussi di utenti nella metro permette di inserire le informazioni visive negli snodi cruciali; il nome delle fermate ripetuto lungo le fasce segnaletiche nelle banchine permette agli utenti di sapere con facilità la stazione di fermata; il trattamento delle plance segnaletiche in vernice opaca aumenta la leggibilità delle informazioni senza riflettere la luce.
Noorda con quel progetto vincerà il Compasso d’Oro e l’anno successivo all'inaugurazione della metropolitana fonderà lo studio multinazionale Unimark International – assieme, tra gli altri, a Massimo Vignelli – diventando uno dei principali interpreti della stagione d’oro della corporate identity su scala mondiale e curando anche la segnaletica della metropolitana di New York e San Paolo. È proprio ricordando quest’ultima esperienza che ammetterà: «Settimane intere sotto terra a studiare, i colleghi mi chiamavano la talpa»6. Eppure, nonostante il successo e l’esperienza, per la metropolitana milanese Noorda progetta un logo che dura giusto il tempo di essere lanciato. Il primo logo della MM, concepito tra il 1962 e il 1963, è composto da due “M” sovrapposte e specchiate connotate da una linea continua che richiama il caratteristico corrimano rosso progettato da Albini ed Helg. Il logo viene utilizzato nelle comunicazioni iniziali e nella segnaletica dell’allestimento di prova alla stazione Amendola, ma ben presto viene scartato: la “M” capovolta in basso – quella che con una metafora delicatissima rappresentava la vita sottoterra, il mondo “upside down” – veniva letta come “W”. È per questa ragione che si opterà per una doppia “M” affiancata e con angoli appuntiti in uso fino agli anni Ottanta.

Milano MM Amendola-Fiera. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Milano,_MM_Amendola-Fiera_03.jpg
Nonostante la scomparsa prematura, il logo originario per il metrò milanese è rimasto negli anni una presenza fantasmatica molto presente nei manuali di corporate identity e nelle storie della grafica, spesso mostrato nei musei del design e amato dai progettisti ma non pervenuto nel mondo reale. Un logo che sembra incarnare – anche per la sua forma ammiccante al sotterraneo e, in qualche modo, all’oltretombale – il concetto fisheriano di “hauntology” inteso come persistente presenza nel presente di elementi di un passato interrotto o mai del tutto realizzato. Ma c’è un altro logo di Noorda che potrebbe raccontare bene questo presente infestato dal passato.
Due decenni più tardi rispetto al progetto della M1, Noorda viene incaricato di materializzare visivamente il rinnovamento dell’AEM, dicevamo. Negli stessi anni in cui il grafico olandese cura, solo per citarne alcune, l’identità del Touring Club Italiano, l'immagine di Feltrinelli, di Coop e, nel contesto strettamente municipale, di Amsa – in molti casi con il contributo di Maurizio Minoggio (7) si trova a firmare il progetto d'identità visiva che formalizza la visione modernizzatrice del nuovo "piano energetico per l'area milanese". Il marchio finale, presentato nel 1982, ha una forma triangolare di colore azzurro in cui sembrano coesistere una spigolosa lettera “M” e un sole raggiante di colore giallo al centro (8).

La torre AEM alla Goccia. Fonte: https://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-3a010-0015469/
La metafora visiva del sole come fonte primaria di energia compare anche in uno spot televisivo della AEM a metà degli anni Ottanta, nel periodo d’oro della pubblicità in TV, che in Lombardia conosce un exploit considerevole anche grazie al moltiplicarsi delle reti locali. Nello spot in questione alcuni tecnici dell’azienda municipale arrivano in piena notte, non tra i gasometri nel complesso industriale della Bovisa, ma in Piazza Duomo, dove, per mezzo di una gru si sporgono oltre le guglie e la Madonnina, riuscendo ad attivare così un romantico interruttore a corda che accenda nientemeno che il sole, illuminando a giorno la città.

AEM. Fonte: https://www.spot80.tv/spot/aem-milano/
La “M” soleggiata che l’AEM lancia negli anni Ottanta viene impressa nei suoi colori ufficiali anche sugli edifici dell’impianto di Bovisa. Lo si ritrova ancora oggi sulla parete curva di una torre-serbatoio che svetta tra gli edifici e i gasometri del complesso industriale. Anzi, il marchio di Noorda è l’unico simbolo commerciale superstite della lunga stagione industriale del complesso che negli anni ha visto la chiusura di stabilimenti tra i quali Smeriglio, Montedison, Ceretti & Tanfani. La torre con questa “M” appuntita, la cui forma ricorda enigmaticamente quella degli aerei militari stealth, i velivoli zigzagati invisibili ai radar, è oggi visitabile come un’archeologia della grafica industriale nel bosco della Goccia, come un monolite precipitato in uno scenario sospeso, mutante e contaminato. Dall’11 luglio 1994 infatti gli impianti AEM vengono definitivamente chiusi e l’impianto dichiarato Sito di Interesse Nazionale per la densità di contaminanti nel terreno.
LOGHI COME MOSTRI E SCARTI
Nelle battute finali del reportage sulla Milano fantasmatica del dopoguerra, Crocenzi intravede uno spiraglio di vita. Ovviamente non nel centro, abitato come si è detto, dai fantasmi del fascismo e dagli abbagli del consumismo borghese, quanto nelle «prospettive periferiche» (9) abitate da fili di panni stesi, da annunci e prezzi «da povera gente, da bambini incantati al sole»(10). Nella periferia Crocenzi intravede la vita. Lì, dice, c’è «qualcosa di giovane»(11).

Luigi Crocenzi, Occhio su Milano, Il Politecnico, n. 29, 1 maggio 1946.
Le parole di Crocenzi trovano una sponda in un volume curato recentemente da Annalisa Metta dal titolo Il paesaggio è un mostro. Nel libro Metta indaga la dialettica tra urbano e naturale andando oltre la retorica “green” e la pianificazione efficientista. In un passaggio si legge: «la meraviglia [...] accade quando il progetto sappia farsi vacanza»(12), parola che per l’autrice è «alla lettera, la condizione di ciò che è vuoto»(13), vacante appunto, ma anche «stato di eccezione rispetto alla normalità, al consueto stato produttivo e determinativo»(14). Anche la cittadella industriale nella Bovisa milanese, a partire dalla chiusura degli impianti nel 1994, è diventata uno spazio di vacanza, un luogo conflittuale, capace di generare «paesaggi-Frankenstein inimmaginati»(15) o, in altre parole, mostri nati dall’assenza di pianificazione economica e industriale, dal mescolamento interspecista, dall’avanzata della flora e di una fauna non umana intorno alla torre-serbatoio segnata dal logo AEM. Il marchio di Noorda non si è spento, non è morto, è stato fagocitato, mescolato, rigurgitato ed è diventato altro.
Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg nel 1979 usano il termine “scarto” per indicare i fenomeni accaduti lontani dai canonici centri artistici tra Cinquecento e Settecento nella pittura italiana (16). Questa espressione, che nella gran parte dei casi assume un’accezione dispregiativa, nella loro contro-narrazione storica diventa sinonimo di movimento laterale alternativo al flusso dominante, azione di resistenza e resilienza. Prendendo in prestito anche questa espressione possiamo affermare che mentre nel centro ci sono i fantasmi, nella selva della Goccia ci sono i mostri, gli scarti.
Se negli anni Settanta è stato decisivo per gli architetti imparare dalle insegne intermittenti di Las Vegas, dai loghi al neon che insegnavano un modo di progettare imprevisto, vernacolare, dal basso, ora abbiamo qualcosa da imparare come designer, architetti, amministratori e cittadini, dal bosco della Goccia. Ora che i loghi – che nel frattempo abbiamo imparato a chiamare brand – sono tornati a connotare i grattacieli nelle zone più esclusive della città e che i palazzinari brandizzano gli edifici stessi per venderli meglio; ora che il capoluogo lombardo è sempre più a misura di turisti e che si vanta di avere la via commerciale del lusso più costosa al mondo; ora che il centro città è infestato di marchi quindi, la presenza di un solo logo sulla torre-serbatoio nel centro della Goccia, in una selva ricca, resiliente, viva e imprevedibile, sembra dare ragione alla dicotomia tra centro e periferia, tra fantasmi e vivi, intravista da Crocenzi nell’immediato dopoguerra. E forse è proprio questa la missione propria dello spicchio di macchia incolta nel cuore della Bovisa che è la Goccia: svelare la vita che nasce dalla mancanza di pianificazione e sfruttamento del metro quadrato, dal vuoto anziché dal pieno, dalla mancanza di loghi anziché dalla loro moltiplicazione, dai mostri e dagli scarti della periferia anziché dai fantasmi del centro.

Torre AEM alla Goccia. Foto: Michele Galluzzo, 2025
Note
1. Luigi Crocenzi, Occhio su Milano, Il Politecnico, n. 29, 1 maggio 1946, p. 14.
2. Ivi, p. 13..
3. Ivi, p. 14.
4. Suo lo straordinario libro collettivo su Milano che chiama a raccolta nel 1967 nomi eccellenti della fotografia come Aldo Ballo, Diego Birelli, Mimmo Castellano, Cesare Colombo, Mario Cresci, Ferdinando Scianna. Cfr. Luigi Crocenzi & Diego Birelli (a cura di), Milano, Electa, Milano 1967.
5. Cfr. Giorgio Fiorese, Aura di Bovisa: Produzione conoscenza figurazione, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN) 2022, p. 18.
6. Bob Noorda, intervistato da Caterina Soffici, Bob Noorda: L’architetto dei marchi, Il Giornale, 1 settembre 2005, https://www.ilgiornale.it/news/bob-noorda-larchitetto-dei-marchi.html, ultimo accesso: 8 dicembre 2025.
7. Cfr. Mario Piazza, Bob Noorda Design, 24 Ore Cultura, Milano 2015.
8. A metà degli anni Novanta l'azienda AEM si trasforma in società per azioni, e al posto del sole al centro della “M” è ancora Noorda a creare una composizione di nove cerchi gialli ombreggiati disposti a formare una composizione romboidale ancora visibile impressa su numerosi tombini della città.
9. Luigi Crocenzi, Occhio su Milano, Il Politecnico, n. 29, 1 maggio 1946, p. 14.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Annalisa Metta, Il paesaggio è un mostro: Città selvatiche e nature ibride, Derive e Approdi, Roma 2022, p.129.
13. Ivi, p. 117.
14. Ibidem.
15. Ivi, p. 9.
16. Enrico Castelnuovo & Carlo Ginzburg, Centro e Periferia nella storia dell’arte italiana, Officina Libraria, Roma 2019, pag. 116.
Michele Galluzzo. Michele Galluzzo è un graphic designer e ricercatore. Dopo una laurea in Scienze della comunicazione (Università del Salento) e un master in grafica editoriale (ISIA di Urbino), nel 2018 completa il dottorato in Scienze del Design (IUAV di Venezia). Dal 2014 al 2017 è assistente di ricerca e graphic designer presso l’Archivio Storico del Progetto Grafico AIAP CDPG di Milano. Come ricercatore ha collaborato con diversi archivi storici, tra i quali Associazione Archivio Storico Olivetti, Fondazione Pirelli, Gruppo Campari. Dal 2018 al 2022 è parte della redazione della rivista internazionale di grafica Progetto Grafico. Nel 2020 fonda con Franziska Weitgruber il duo di design/ricerca Fantasia Type. Dal 2020 al 2023 è RTD nella Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano e e attualmente insegna presso l’Accademia Abadir di Catania, lo IUAV di Venezia, la Libera Università di Bolzano e la Raffles Milano. Nel 2024 ha pubblicato per Krisis Publishing il libro Logo In Real Life: Note per una storia sociale della visual identity.
