L’area della Goccia è separata dal resto di Milano da alti muri perimetrali e dal massicciato della ferrovia, tanto che sono in molti a transitare ogni giorno ai suoi margini senza immaginare che cosa ci sia al di là della recinzione: un bosco di diciotto ettari cresciuto spontaneamente tra le macerie di uno stabilimento industriale dismesso. Eppure, se si apre una cartina e si guarda questa stessa zona dall’alto, a volo d’uccello, la prospettiva cambia e ci si rende conto non solo dell’ampiezza effettiva dell’area – con quella muraglia verde non attraversata da alcun sentiero e anche per questo così diversa da qualsiasi parco cittadino –, ma anche di come la Goccia sia profondamente inserita nel tessuto urbano.
A est si sviluppa lo storico quartiere operaio della Bovisa, con le sue palazzine primonovecentesche e gli stabilimenti industriali, in parte abbandonati e in parte riconvertiti, e poi il quartiere di Dergano, fuso con la Bovisa a livello urbanistico ma molto diverso per storia e vocazione; a ovest c’è Villapizzone, con la sua piazzetta omonima che confonde i forestieri facendo pensare a un piccolo borgo; a nord si apre Quarto Oggiaro, una delle più conosciute e chiacchierate periferie milanesi; a sud, la Ghisolfa e il Mac Mahon, insieme ai loro echi testoriani, e poco più in là lo Scalo Farini, vuoto urbano in procinto di diventare a sua volta città.
Quando ci si trova a ragionare sul futuro di un’area tanto estesa, complessa e radicata in un contesto fortemente antropizzato è buona pratica – non così comune, purtroppo – prendersi del tempo prima di agire. Qual è l’idea di città che si vuole veicolare? È possibile uscire dalla logica unica del parco? Esistono strade alternative rispetto a quelle che vengono usualmente percorse? E quali sono le necessità, le aspettative, i desideri delle comunità che ci vivono attorno nel presente e che si troveranno a frequentarla nel futuro? Sono solo alcune delle molte domande a cui sta provando a rispondere Kilowatt, cooperativa di lavoro con anni di esperienza alle spalle su tematiche di rigenerazione urbana. Dopo aver ristrutturato e riconvertito nel 2015 le Serre dei Giardini, a Bologna, che adesso gestisce come polo di produzione culturale, Kilowatt ha sviluppato al suo interno un gruppo di lavoro che fornisce consulenza per l’avvio o lo sviluppo di progetti con obiettivi di impatto sociale, ambientale e culturale.

Un momento di un'azione performativa messa in atto durante l'attività laboratoriale © Cecilia Colombo
«Nell’ambito della Goccia stiamo realizzando una ricerca etnografica con lo scopo di raccogliere dati qualitativi che ci permetteranno di andare a elaborare un’ipotesi di modello di governance di futura gestione dell’area e un’ipotesi di modello di fruizione, cioè in che modo quest’area sarà attraversata e frequentata dalla popolazione» mi spiega Cecilia Colombo, project manager di Kilowatt. «Uno degli obiettivi è cercare di superare l’approccio antropocentrico di parchizzazione urbana. Quindi capire in che modo possiamo pensare alla Goccia come a una foresta in città e quale relazione questa foresta avrà con i quartieri circostanti e con la cittadinanza in generale.»
Un percorso di ricerca cominciato nel gennaio 2025 e che si svilupperà fino ai primi mesi del 2026, quando la grande mole di dati raccolti verrà portata a sistema e saranno elaborati alcuni scenari per diversi modelli possibili di gestione dell’area.
«Il nostro è un approccio di tipo costruttivista, che si discosta dal metodo sociologico classico» mi racconta Gaspare Caliri, cofondatore di Kilowatt, quando gli chiedo di entrare nel dettaglio della ricerca che sta conducendo insieme alle colleghe Cecilia Colombo e Samanta Musarò. «Essenzialmente, dal punto di vista della sociologia classica l’analisi del rapporto tra i soggetti che esistono su un territorio parte dalle categorie date di questi soggetti, quindi dal modo in cui vengono incasellati: le persone sono giovani o sono vecchie, sono povere o sono ricche... poi, sulla base delle categorie selezionate, viene sviluppata la ricerca. Un approccio costruttivista, invece, parte sgombro di categorie, preferendo costruirle passo dopo passo, insieme agli accidenti e agli incontri che si fanno durante il percorso.»
Significa, insomma, approcciarsi all’oggetto della ricerca, in questo caso alla Goccia e alle comunità che ci vivono intorno, con la mente il più possibile aperta, senza idee precostituite. Un esercizio di umilità, se vogliamo, che impone una grande propensione all’ascolto, tutt’altro che comune in una società come la nostra, per non parlare di una città come Milano, dove il tempo per fermarsi a osservare spesso non c’è.
«L’approccio costruttivista è molto utile in un contesto come quello della Goccia» continua Caliri. Il suo tono è appassionato, non di rado si lascia andare a suggestioni che spaziano dal filosofo Gilles Deleuze alla psicogeografia degli anni Sessanta. «Nel momento stesso in cui accedi al suo interno – e uso la parola “accedere” intenzionalmente, perché in un luogo di questo tipo non ci si entra solo dal punto di vita fisico, ma anche da quello simbolico e relazionale – ti rendi conto di non avere categorie per comprenderlo. Voglio dire: che cos’è? È un ex impianto produttivo? Una foresta urbana? È parte della città? Può essere tutte queste cose insieme, ma è anche molto altro: è un luogo che fa saltare le categorie, le polarizzazioni, le dicotomie.»
Capisco bene che cosa intende: la Goccia vive di contrasti, di antinomie, uno spazio altro rispetto sia al contesto urbano in cui è inserito sia alla wilderness che siamo soliti associare alla parola “foresta”. Il suolo è ricoperto di terriccio, erba, rovi, proprio come in un bosco; eppure, basta rimestare un po’ il terreno e quasi ovunque spunta il cemento, l’asfalto, spesso crepato dalle radici degli alberi. È un luogo non addomesticato che affascina e respinge allo stesso tempo. Una volta dentro, puoi sentirti disorientato e percepire il bisogno di metterti in ascolto, com’è capitato a Caliri; oppure puoi vederlo come una fonte d’ispirazione, qualcosa da cui apprendere, com’è successo a Colombo; quanto a me, ho subìto il fascino del margine, di ciò che è spurio e rifugge il quotidiano. In ogni caso, è impossibile non percepirne la complessità.

Il picnic domenicale che ha dato inizio alla residenza di Kilowatt © Cecilia Colombo
Ma nel concreto questa ricerca etnografica come si sviluppa?
«Abbiamo cominciato intervistando quei soggetti che negli ultimi anni hanno più frequentato, osservato e studiato l’area, cioè le altre realtà dell’Osservatorio La Goccia, da Terrapreta, promotrice e coordinatrice dell’Osservatorio, al Museo di Storia naturale di Milano, dal CNR al Centro di Forestazione Urbana – Italia Nostra... È stata una prima fase interna, pensata per far emergere un allineamento strategico rispetto alla visione e alla direzione da dare alla ricerca» mi dice Cecilia Colombo. Rispetto a Caliri, Colombo mi racconta del loro progetto in maniera più lineare e concreta, ma riconosco nelle sue parole la stessa passione del collega. «Ci siamo poi confrontati con alcuni esperti esterni all’osservatorio, interagendo in particolare con chi è portatore di uno sguardo umanistico sul pensiero ecologico. Un aspetto fondamentale che è emerso trasversalmente nel corso di quest’anno è proprio l’importanza di ibridare il più possibile sguardo scientifico e sguardo umanistico, per proporre poi una trasformazione che sia davvero culturale in relazione al rapporto che hanno i cittadini con il selvatico nel contesto urbano.»
L’obiettivo d’impatto emerso è tanto stimolante quanto impegnativo: rendere la Goccia un laboratorio vivente in cui osservare, sperimentare e diffondere pratiche di coesistenza ecologica, capaci di trasformare il modo in cui pensiamo, progettiamo e abitiamo le città.
Per portare avanti questa visione evitando che le decisioni prese vengano percepite come calate dall’alto, lontane dai desideri e dalle necessità degli individui, è necessario però un ulteriore passaggio: il confronto con le comunità locali. Il successivo ciclo di interviste si è dunque svolto con cittadine, cittadini, organizzazioni attive nei quartieri circostanti.
Abito anch’io da queste parti, e nell’elenco che mi viene fatto scorrere davanti riconosco i nomi di molte realtà che da anni lavorano sul territorio, svolgendo una fondamentale, e a volte complicata, funzione di presidio socioculturale: lo storico Arci la Scighera, la libreria Scamamù, l’associazione di cittadini BovisAttiva, l’ETS L’amico Charly, gli spazi culturali e ricreativi Nuovo Armenia e Rob de Matt... L’area che si sviluppa attorno alla Goccia è un contesto peculiare, un insieme di quartieri molto diversi, nettamente separati tra loro proprio dalla presenza della Goccia e della cintura ferroviaria, ma che si trovano tutti ad affrontare un momento di forte transizione, tra spinte alla gentrificazione, sfide legate all’integrazione, crescita incontrollata dei prezzi, scarsa attenzione da parte dell’amministrazione comunale.
«Incontrando i cittadini dei quartieri limitrofi e le organizzazioni che da anni lavorano sul territorio, abbiamo cercato di capire insieme a loro qual è l’immaginario storico che si è stratificato negli anni e, soprattutto, che cosa potrà diventare questa foresta per le comunità che ci gravitano attorno», specifica Colombo.
Com’è normale, le suggestioni emerse sono molte. Una che mi ha particolarmente attratto è la proposta di mappare, e poi di mettere in connessione con la Goccia, le altre aree verdi non convenzionali, a volte liminali, presenti nel quadrante nordovest della città: dagli orti di via Bovisasca al bibliogiardino della biblioteca di Villapizzone, fino ad arrivare a progetti geograficamente più lontani ma culturalmente affini come il Giardino degli Aromi all’ex Paolo Pini (Affori) e l’Orto Botanico Aurelia Josz (Niguarda) – tutte realtà che non si riconoscono nella definizione di parco urbano.
Fino a questo momento ho sempre parlato di “interviste”, ma il termine più corretto è forse “chiacchierate”. La direzione del discorso e gli argomenti approfonditi variano a seconda dei soggetti coinvolti, mentre le domande sono aperte, evocative, lasciano spazio all’immaginazione e all’interpretazione, spesso generano ulteriori domande e confronti, in quello che è a tutti gli effetti un continuo riposizionamento del discorso. Ci sono domande come: “Se potessi essere un essere vivente (o un elemento) che abita la Goccia, cosa saresti e perché?” (tra le risposte: querce, lombrichi, acque, picchi, persino un batterio) e “Se fosse un’unica persona a decidere il futuro della Goccia, quale libro le regaleresti?”, oppure c’è la richiesta di commentare una serie di dicotomie (tra le altre: “natura / cultura”, “individuo / comunità”, “privato / pubblico”, “tutela / fruizione”, “rigenerazione ecosistemica / rigenerazione urbana”).
L’attività di sintesi, come si diceva, è in corso d’opera, ma stanno già emergendo spunti interessanti. Per esempio, la volontà di privilegiare sistemi di bonifica naturale (fitorisanamento) come strategia prioritaria per il futuro nell’area e la necessità di promuovere un processo culturale e politico per sostenerla nel tempo, oltre al desiderio di guardare alla Goccia come a una palestra che possa allenare un punto di vista diverso, non antropocentrico.
«La Goccia è un luogo terzo, né naturale né urbano. La sfida è rapportarcisi come un luogo avulso dalle categorie che normalmente usiamo per osservare il verde nella nostra quotidianità urbana, e che però sia allo stesso tempo accessibile ai quartieri e alla cittadinanza» mi spiega Caliri. «Tutto questo potrebbe tradursi, tra le altre cose, nella scelta di mantenere alcune zone dell’area interdette all’accesso.»

Capsule del tempo riempite durante la residenza di Kilowatt © Cecilia Colombo
Ma il tema che colpisce di più, e che emerge in molte chiacchierate, è quello del tempo. Accedere alla Goccia con uno sguardo non antropocentrico significa rendersi conto che al suo interno il tempo scorre in maniera diversa rispetto al resto della città, e che c’è bisogno di tempo per ascoltare (e cercare di comprendere) ciò che questo luogo vuole comunicarci. La crescita di una foresta richiede molti decenni, mentre le città sono state concepite per una fruizione veloce, immediata. Noi che le abitiamo abbiamo dunque pochi strumenti e poche occasioni per entrare in relazione con una temporalità tanto dilatata. E allora forse l’opportunità più grande che la Goccia ci sta suggerendo è quella di renderci conto che esistono altri modi per vivere e immaginare le città, e che è arrivato il momento di sperimentarli. Come dice Cecilia Colombo: «La Goccia è un luogo che stimola noi esseri umani, che viviamo in una società capitalista, iperproduttiva, iperveloce, ad abbracciare l’incertezza e ad accettare tutto il tempo necessario affinché questo luogo possa evolvere».
Michele Turazzi. Michele Turazzi vive a Milano e lavora nell’editoria. Ha pubblicato il romanzo Prima della rivolta (nottetempo 2023, vincitore del Premio Demetra per la letteratura ambientale 2024) e il reportage narrativo Milano di carta (il Palindromo 2018).
