Michael Marder è noto soprattutto per le sue ricerche sulla filosofia delle piante e sul concetto di "plant-thinking", o pensiero vegetale. Nelle sue opere, esplora il modo in cui le piante possano offrire una nuova prospettiva sulla soggettività, sulla temporalità e sulla conoscenza, mettendo in discussione le tradizionali categorie filosofiche antropocentriche.
Secondo Marder, il "pensiero vegetale" è una modalità di pensiero non cognitiva, non ideazionale e non immaginifica la cui comprensione potrebbe trasformare il pensiero umano, portandolo a mutuare le qualità e le capacità di relazione, comunicazione e interazione con l’ambiente e gli altri esseri proprie delle piante.
Filosofo, attualmente insegna all'Università dei Paesi Baschi. Il suo lavoro si concentra principalmente sulla filosofia continentale, il pensiero ambientale e la filosofia politica. Ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia alla New School for Social Research di New York City e ha svolto ricerche post-dottorali presso l'Università di Toronto. Ha inoltre insegnato in diverse università, tra cui Georgetown University e Duquesne University, prima di accettare la cattedra dell’Ikerbasque.
Autore di numerosi libri e saggi tradotti in tutto il mondo, in Italia sono stati pubblicati da Mimesis: Tempo incognito. Glossario filosofico per il ventunesimo secolo (con G. Tusa, 2024) e Chernobyl Herbarium. La vita dopo il disastro nucleare (2021) e La pianta filosofale. Un erbario intellettuale (2025).
In La pianta filosofale. Un erbario intellettuale, edito in Italia da Mimesis, Michael Marder esplora il rapporto profondo e spesso trascurato tra la filosofia e il mondo vegetale.
La filosofia occidentale ha tradizionalmente mostrato un disinteresse concettuale, quando non una vera e propria avversione, nei confronti delle piante. Da sempre relegate a un ruolo inferiore rispetto agli animali e agli esseri umani, sono state considerate prive di coscienza, intelligenza o movimento autonomo, e usate solo come metafore o sfondi scenografici. Secondo Marder però, le piante hanno comunque trovato il modo di influenzare il pensiero filosofico.
Attraverso dodici capitoli, ciascuno dedicato a un filosofo significativo (da Platone a Irigaray) e a una pianta specifica, Marder illustra come queste piante abbiano influenzato metafore, concetti e argomentazioni filosofiche, suggerendo che le piante possano offrire importanti lezioni sulla relazione con l'alterità, sulla temporalità, sulla conoscenza e sulla natura dell'essere, promuovendo una prospettiva non antropocentrica.
Emerge l’idea che la strumentalizzazione delle piante, e il considerarle ontologicamente inferiori, sia parte di una logica “troppo umana” e "totalizzante" che ha avuto conseguenze negative per il nostro rapporto con il cosiddetto mondo della natura.
La pianta filosofale non è solo una rilettura della storia della filosofia attraverso le piante, ma un invito a ripensare la filosofia stessa da una prospettiva vegetale, mettendo in discussione i principi che la nostra società si è data sulla vita, il pensiero e il posto nel mondo che spetta all’essere umano.

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Queste riflessioni sono in continuità con il concetto che Michael Marder sviluppa in uno dei sui primi libri, il "plant-thinking". Non si tratta di attribuire alle piante una coscienza o un'intelligenza simile a quella umana, ma piuttosto di riconoscerne la loro peculiare forma d’esistenza e la capacità di interazione - totalmente altra rispetto a quella umana - con il mondo. Si tratta, per Marder, di una modalità di pensiero non-cognitiva: questo "pensiero senza testa" si manifesta nella loro crescita, nelle loro risposte all'ambiente e nella loro capacità di interconnessione. È una forma di intenzionalità non-cosciente.
Il "plant-thinking" include in un certo senso anche il modo in cui gli esseri umani pensano e riflettono sulle piante. Marder ci invita a superare una visione strumentale o oggettivante delle piante per riconoscerle come vere e proprie soggettività, con una loro specificità ontologica.
D’altra parte, l’auspicio dell’autore è che, entrando in contatto con il mondo vegetale e con il suo modo di essere, il nostro stesso pensiero possa apprendere qualcosa delle piante e trasformarsi: una maggiore apertura all'alterità e una minore enfasi sull'individualità autonoma e sul controllo, un modo di stare al mondo meno egotico e più in sintonia con l'ambiente, una relazione più etica e sostenibile con il mondo vegetale e non-umano.
Lo stesso concetto di trasformazione o metamorfosi risulta rilevante nella riflessione di Michael Marder. Non come una semplice indicazione di cambiamento da una forma all'altra, ma come un processo continuo, intrinseco all'esistenza stessa, che sfida le nostre nozioni di identità. Legando la metamorfosi a temi ecologici, suggerisce che una comprensione profonda della trasformazione - non solo quella esistente nel mondo vegetale – sia essenziale per trovare un modello di coesistenza più sostenibile e integrata.
A partire dall'apparente alterità tra mondo vegetale e esseri umani, è possibile che le piante ci facciano da specchio? E come? È possibile per l'essere umano del XXI secolo conoscersi attraverso la vita vegetale e la sua storia?
La domanda se le piante possano rispecchiare noi esseri umani presuppone una certa divisione metafisica che a lungo ha fatto da base al pensiero occidentale: quella tra l'umano e il non umano, l'animato e l'inanimato, il soggetto pensante e il corpo vegetativo (dopo tutto, il rispecchiamento richiede distanza e separazione, ponendo qualcosa o qualcuno di fronte allo specchio, o sopra e contro di esso). All'interno di questo schema, il vegetale è stato costantemente collocato dalla parte dell’elemento passivo, silenzioso, immobile: qualcosa che fa da sfondo alle vicende della vita umana, ma mai come partecipante al dramma del significato, del pensiero o della riflessione. Se vogliamo porre la questione del rispecchiamento vegetale con una qualche serietà filosofica, dobbiamo innanzitutto soffermarci a smontare l'impalcatura concettuale che mantiene l'alterità formale tra noi e la vita vegetale, scoprendo la pianta come l'altro dentro l'umano.
Le piante non ci rispecchiano nel modo narcisistico di una superficie riflettente, che restituisce la nostra immagine, le nostre categorie, i nostri valori. Non offrono un'imitazione riconoscibile della forma o della psiche umana; anzi, si oppongono proprio a questa riduzione a ciò che possiamo già comprendere. Eppure c'è uno specchio, se siamo disposti a ripensare la nozione stessa di specchio. Ciò che la pianta offre non è uno specchio dell'uguale, ma uno specchio della differenza, dell'alterità, una controimmagine vegetale che ci costringe a confrontarci con la ristrettezza del nostro orizzonte antropocentrico.
La pianta, nel suo radicamento, nella sua passività radicale che è anche un impegno attivo con il mondo attraverso la fotosintesi, i tropismi e la squisita attenzione al suo ambiente, offre un modo di essere che non si conforma agli ideali umani di autonomia, di volontà o persino di tempo. Nell'incontrare questo tipo di vita, ci confrontiamo con i nostri pregiudizi. La pianta non riflette ciò che siamo, ma piuttosto espone ciò che non siamo ancora in grado di pensare di noi stessi e, allo stesso modo, ciò che non siamo più in grado di pensare di noi stessi, avendolo completamente dimenticato e represso.
Così, in effetti, le piante possono rispecchiarci, ma solo sfigurando la nostra immagine, rendendola strana, opaca e sconosciuta. In questo straniamento risiede la possibilità di trasformazione. Comprendere noi stessi attraverso la vita delle piante non significa semplicemente innestare metafore vegetali nella psicologia o nella storia dell'uomo, bensì aprirci al pensiero vegetale. Un pensiero che non separa il soggetto dall'oggetto, la mente dal corpo o il sé dal mondo. In questo pensiero, non ci separiamo dalla pianta, guardandola dall'alto come da un trono della ragione; pensiamo con e attraverso la vita vegetale, permettendo alle sue temporalità, alle sue sensibilità e alle sue relazioni di guidarci verso un ethos diverso.
In poche parole, direi che il vegetale è il nostro parente dimenticato, il nostro interlocutore silenzioso e forse il terreno stesso da cui può nascere una nuova comprensione dell'umanità.
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©Camilla Morino
Collegata all’idea delle piante come specchio c’è la possibilità di intenderle e di farne esperienza quali testimoni silenziosi (ma a volte così espliciti) delle nostre vicende e della nostra storia, a partire da una dimensione più privata e domestica fino a quella più generale ed epocale. Che testimonianza portano le piante?
Le testimonianza delle piante non è come quella degli storici o degli archivisti in senso umano, ma avviene in un modo più profondo ed elementare, in quanto è inscritta nei loro corpi, nei loro ritmi, nella loro resistenza e nelle loro metamorfosi continue. Chiedersi quale sia la testimonianza delle piante significa ascoltare una voce che parla di crescita, di decadenza, dil risposta a trauma e di cura.
La testimonianza vegetale è partecipativa, radicata nei luoghi della vita e della perdita, e abita con noi nei nostri spazi più intimi - i nostri giardini, le nostre case, i nostri rituali - come anche nei paesaggi pubblici della violenza, della colonizzazione, dell'industrializzazione e del degrado ambientale. Gli alberi che crescono in un terreno che porta i segni della guerra (compresi i cadaveri dei soldati caduti e, sempre più spesso, dell'ecocidio scatenato dagli eserciti invasori); le colture alterate dai cambiamenti climatici; le piante d'appartamento soggette a cure o a incuria: queste sono tutte iscrizioni vegetali, registrazioni incarnate di storie umane-vegetali, raccontate e non raccontate.
Le piante sono testimoni non solo degli eventi, ma anche delle atmosfere - delle sottili, invisibili e pervasive condizioni d'esistenza. Registrano la tossicità; si piegano verso o lontano dalla nostra presenza; esprimono senza parole la siccità e i terreni impoveriti, l'aria piena di azoto e gli isotopi radioattivi. La loro testimonianza è distribuita, diffusa, ecologica. Resiste alla linearità della cronaca o della confessione. In questo modo, si accumula lentamente e spesso in modo irreversibile.
Testimoniare, per le piante, significa persistere, rimanere e trasformarsi sull’onda del dissesto. È anche rendere visibile, attraverso le loro forme alterate e i cicli vitali interrotti, le operazioni invisibili del potere, dell'abbandono e della cura. Sono testimoni non dello spettacolare, ma dell'abituale, del trascurato, degli effetti sedimentati nel tempo.
In questo senso, le piante non solo testimoniano la nostra storia, ma la complicano. Ci riflettono (e qui torniamo allo strano specchio della tua prima domanda) non quello che già sappiamo, ma ciò che abbiamo rifiutato di vedere: la lenta violenza del collasso ecologico, la parentela dimenticata tra le specie, le esigenze etiche della coesistenza.
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©Camilla Morino
Se il pensiero vegetale è non-cognitivo, che tipo di sapere è quello del mondo delle piante? Cosa sanno che noi non sappiamo? Come possono insegnarcelo? E come noi possiamo apprenderlo?
Quando scrivo che il pensiero vegetale è non-cognitivo non nego affatto che le piante pensino. Piuttosto, voglio liberare il loro pensiero dal monopolio del cognitivismo su cosa significa pensare, legato esclusivamente alla razionalità, alla simbolizzazione e all'interiorità. Ciò che il mondo vegetale offre è un pensiero pre-riflessivo, incarnato e disperso, un'intelligenza che si dispiega nella crescita, nella sensibilità all'ambiente, nelle simbiosi. La conoscenza delle piante non è conoscenza del mondo, ma conoscenza come relazione con il mondo.
Questo tipo di conoscenza non ha bisogno né di linguaggio né di concetti astratti. È intima, ecologica e reattiva, singolare e altamente trasmissibile. Senza rendercene conto, anche la nostra concezione comune della conoscenza si basa su ciò, anche se disconosciamo questo “fondamento”. Le piante sanno abitare contemporaneamente mondi molto diversi. Sanno aspettare, sopportare, cooperare in modo non gerarchico, rigenerarsi dopo una catastrofe senza conquiste o vendette. Incarnano un tipo di saggezza che sfugge ai criteri antropocentrici di utilità e chiarezza. Il loro sapere si esprime in ritmi, orientamenti e relazioni, piuttosto che in rappresentazioni.
Cosa sanno che noi non sappiamo? Conoscono l'arte dell'essere-con: della coesistenza sinergica con il suolo, il sole, l'aria e gli altri. Inoltre, sanno come rispondere senza dominare, come dare senza aspettarsi niente in cambio, come morire e rinascere senza il dramma della rottura esistenziale.
Le piante possono insegnarci, ma solo se prima disimpariamo l'arroganza di ciò che di solito va sotto il nome di epistemologia. Le loro lezioni si presentano sotto forma di gesti e di posizioni costantemente mutevoli: il lento arricciarsi di un viticcio e l'apertura della foglia o del fiore verso la luce, il segnalare comunitario dei sistemi di radici della foresta, il rifiuto di farsi prendere dalla fretta o di separarsi dai luoghi. Il pensiero vegetale, infatti, ci invita a un altro modo di essere, in cui il pensiero non è separato dalla vita e la conoscenza non è separata dal mondo che cerca di conoscere.
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©Camilla Morino
A lettura ultimata, l'impressione è che la Pianta filosofale altro non sia che la riflessione stessa, la storia della filosofia occidentale che un filosofo racconta attraverso aneddoti sul rapporto tra piante e filosofi. Eppure, contemporaneamente, è molto di più perché - in quanto concetto e segno della relazione tra esseri umani e mondo vegetale - travalica i confini di specie, regno e dominio. Quali parole possiamo usare allora per descriverla?
Definire La pianta filosofale come una riflessione sulla filosofia occidentale attraverso aneddoti che coinvolgono pensatori e piante è, in un certo senso, accurato, ma solo come punto di partenza. Il mio progetto supera il gesto simbolico nella misura in cui mira a riconfigurare ciò che significa pensare, raccontare e relazionarsi.
La forma che ho impiegato - e che ho inventato per catturare questa condizione - è quella della fito-biografia, che ho poi esteso alla fito-auto-etero-biografia, in particolare nei miei libri del 2016 Through Vegetal Being, scritto insieme a Luce Irigaray, e The Chernobyl Herbarium, creato insieme ad Anais Tondeur. In poche parole, la storia di una vita non è esclusivamente la propria (auto), né solo quella di un altro (etero), né solo quella delle piante (phyto) ma un disegno composito che rivela come la soggettività umana - specialmente quella filosofica - si costituisca attraverso e accanto all'essere vegetale. È una scrittura che mina la nozione di un “io” delimitato e sovrano, mostrando invece come il pensiero emerga dall'impegno, dall'esposizione condivisa, dal radicamento in un luogo e in un tempo, così come dallo sradicamento e dallo sconvolgimento.
Così, ogni capitolo de La pianta filosofale diventa una sorta di fitobiografia: non una biografia di una pianta, né semplicemente di un filosofo, e dei loro rispettivi modi di pensare, ma un incontro tra i due, una co-articolazione dell'esistenza che nessuno dei due soggetti può possedere pienamente. In questi incontri, le piante guidano il pensiero, fornendogli un supporto materiale, e ne scardinano le categorie. La loro influenza è spesso opaca per i filosofi stessi, ma si intreccia con i loro concetti, le metafore, le abitudini e i gesti.
È vero che, se vogliamo descrivere una forma così ibrida, dobbiamo abbandonare i confini disciplinari e abbracciare uno stile di pensiero e scrittura vegetale che, rifuggendo dal linguaggio del dominio, si piega come uno stelo o un ramo in crescita verso la luce, dove il significato è fotosintetico: generato nell'esposizione tra sé, l'altro e il mondo. Ma questo implica, a sua volta, l'abbandono dei confini ontologici e dei sistemi di classificazione. Quindi, La pianta filosofale trascende le specie e le regioni dell'essere, perché indica qualcosa di più profondo: l'interdipendenza di tutte le forme di vita e di pensiero.
Marco Liberatore. Marco Liberatore è un ricercatore indipendente, consulente editoriale e giornalista culturale. Si occupa di cultura digitale, ecologia della rete e tecno-politica. Co-dirige la collana Culture Radicali per l'editore Meltemi e le collane Postuman3 e Selene per Mimesis edizioni. Collabora con il quotidiano Il Manifesto e con diverse testate on-line. Con il gruppo di ricerca Ippolita ha pubblicato Hacking del sé (2024), Etica hacker e anarco-capitalismo (2019), Tecnologie del dominio (2017), Anime elettriche (2016). Per cheFare, di cui è co-fondatore, ha curato il volume Cultura in trasformazione (2015).