Le selve addormentate. Dalla Goccia alle fiabe

  • Giovanna Zoboli
  • 1 ottobre 2025
©Camilla Morino

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Ogni tanto capita che un frammento di città si addormenti. Può essere una torre di uffici che un fallimento consegna all’abbandono. Un palazzo che l’inimicizia fra eredi litigiosi lascia a se stesso, disabitato. Una stazione di servizio resa inutile da cambiamenti di viabilità. Un’area industriale dismessa che inselvatichisce nell’incuria e nella solitudine. È questo il caso del Bosco della Goccia, a Milano, nel quartiere Bovisa.


Come raccontato su questo blog in Che cos'è la Goccia e perché merita la nostra attenzione, l’area in oggetto è stata preclusa al pubblico per un tempo molto lungo, centotrent’anni, in parte perché accessibile solo agli addetti ai lavori delle attività produttive ospitate (dapprima gestite da Union de Gas e poi, fino al 1994, dalle Officine del Gas), in parte perché per oltre trent’anni, una volta cessate le attività, è stata (quasi) impenetrabile alla frequentazione della cittadinanza. Per essere un territorio urbano, in cui lo spazio è al servizio dei bisogni e delle attività umani, si tratta davvero di un tempo lunghissimo.

La bella addormentata nel bosco

A questo corpo esausto della città è accaduto qualcosa di simile a ciò che si legge in alcune famose fiabe. L’esempio più noto è quello di La bella addormentata nel bosco di Perrault (Rosaspina nella versione dei Grimm): la puntura provocata alla principessa dal fuso di un arcolaio, precipita nell’incoscienza non solo la diretta interessata, ma l’intero regno, situazione che Walt Disney nel lungometraggio animato del 1959 raffigurò in un roveto indomabile e tentacolare a circondare il castello della protagonista. Scrive Perrault: «…in un quarto d’ora tutt’intorno al parco crebbero una tale quantità di alberi, grandi e piccoli, di cespugli e di rovi così intricati che né animale né uomo sarebbe mai riuscito a passare; non si vedeva più nulla, se non le torri del castello e, anche quelle, da molto lontano. Nessuno dubitò che fosse stata la fata ad aver usato uno dei suoi trucchi, affinché la principessa non avesse nulla da temere dai curiosi, mentre dormiva.» Contingenza che nelle parole dei Fratelli Grimm si fa ancora più spettrale: «E il vento tacque, e sugli alberi davanti al castello non si mosse la più piccola fogliolina. Ma intorno al castello crebbe una siepe di spini che ogni anno diventava più alta e finì per circondarlo e ricoprirlo tutto, cosicché non si vide più nulla, nemmeno la bandiera sul tetto. […] e ogni tanto veniva qualche principe, che tentava, attraverso il roveto, di penetrar nel castello; ma senza riuscirvi, perché i rovi lo trattenevano, come se avessero mani; e i giovani vi si impigliavano, non riuscivano più a liberarsi, e morivano miseramente.»

Allo stesso modo, i corpi dismessi della città cadono in un sonno pesante, preda di incantamento. Disertati dall’apparenza della vita, diventano stranamente invisibili, come svuotati da una improvvisa mancanza di senso all’interno del sistema umano di cui fanno parte e, tuttavia, in essenza dormienti, in attesa d’altro o, meglio, di un prossimo risveglio che il tempo occulta. È il tempo, infatti, a diventare il grande protagonista di questi luoghi, ad afferrarne l’identità, trasfigurandoli e moltiplicandone il mistero. Non si tratta di morte, ma di un sonno indotto che solo un evento prossimo al miracolo può interrompere, come il profilarsi di un nuovo, straordinario significato a rompere il maleficio.

Nel caso della Goccia, si potrebbe dire, fra l’altro, ribaltando il punto di vista della fiaba, che è stato il lungo sonno umano a permettere un cambio di destinazione vitalissimo (e anarchico, secondo il nostro punto di vista, ma non secondo i parametri naturali), creando, all’interno del perimetro urbano, un regno parallelo dove, la natura, dopo aver sondato capillarmente in lungo e in largo il suolo a disposizione, compromesso dall’uomo, lo ha ricolonizzato secondo le strategie della selvatichezza a noi aliene e ancora in gran parte sconosciute.

©Camilla Morino

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La foresta in Perrault e nei fratelli Grimm

Nei due brani che ho riportato, vale la pena notare una differenza sottile, ma determinante: se nelle parole di Perrault la foresta germogliata all’improvviso viene descritta come impenetrabile protezione al sonno tranquillo della Bella, in quelle dei Grimm la selvaggia natura che nel tempo ha cinto d’assedio il castello traccia un perimetro maledetto e nefasto, rendendo inaccessibile la principessa e uccidendone i potenziali liberatori. Tale differenza tocca sostanzialmente tutte le fiabe in cui i protagonisti e le protagoniste, abbandonata la propria dimora, si inoltrano in un fitto bosco che attraversano o in cui si perdono o fanno incontri pericolosi o vengono rapiti (Hansel e Gretel, Cappuccetto Rosso, Pollicino…), o in cui si nascondono, per cercare salvezza, riparo, libertà, rifugio (I cigni selvatici, Biancaneve, Dognipelo…). La foresta, la natura selvaggia sono connotate da una ambiguità simbolica e semantica rilevante, mostrandosi ora come distruttive ora come salvifiche, e non di rado nel medesimo testo. Un'ambiguità che ha ampiamente travalicato l’ambito del fiabesco per entrare nella nostra percezione, tutte le volte che abbiamo a che fare con foreste, boschi e, in genere, ambienti selvatici a noi estranei. Di essi subiamo l’intenso fascino e  avvertiamo rapidamente anche la minaccia, non appena la percezione di perdita di controllo sull’ambiente, che mette a rischio il nostro senso di integrità, supera la soglia.

Città e natura

Il rapporto fra città e natura appare improntato alla stessa dissociazione nelle situazioni in cui il controllo urbano dismette gradatamente di agire secondo le proprie logiche d’uso e, in seguito ad abbandono, un nuovo modello di crescita gli si sostituisce, favorendo lo sviluppo di aree naturali selvatiche. Se da un lato queste vengono viste da parte degli abitanti come aree di ricostituzione spontanea di ecosistemi perduti, più salubri e quindi di pubblica utilità, in grado di migliorare la qualità della vita, e pertanto da proteggere, curare e preservare, dall’altra esse vengono recepite come zone potenzialmente gravide di pericoli o usate come discariche o colonizzate clandestinamente da fasce di popolazione ‘senza tetto né legge’, frequentate per attività illegali o ricetto di vite clandestine, fuori controllo, come animali indesiderati e piante infestanti. In questo senso gioca un ruolo fondamentale quel processo di nascondimento che le due fiabe citate segnalano: nella fiaba il bosco nasconde a occhi esterni ciò che è dentro il suo perimetro. Il rigoglio delle piante è tale da celare le tracce della civiltà: le torri, il castello. Si tratta di un vero e proprio processo di cancellazione che la natura mette in atto, ricordando all’uomo di avere su di esso un primato insuperabile, per quanto solitamente rimosso dalla cultura umana. Rispetto a quanto accade nelle fiabe, dove la natura è madre e al tempo stesso matrigna, nel rapporto fra città e natura, a complicare le cose, si registra un ulteriore problema.

Come raccontano Luciana Bordin e Francesca Grazzini in Più grigio che verde. Dieci anni di lotta per il bosco la Goccia di Bovisa, nel masterplan curato dallo studio di architettura di Rem Koolhaas, che fu presentato nel 2012 dal Comune di Milano al Governo Monti per la costruzione di un nuovo quartiere nell’area della Goccia, il bosco non era nominato, al suo posto si parlava di vuoto urbano

Non sarà improprio pensare a questa definizione, che negava non solo lo stato effettivo dell’area (riconsegnata alla natura), ma anche la sua storia e la sua destinazione, come a un caso eclatante del fenomeno della plant blindness, termine coniato da Elisabeth Schlusser e James Wandersee nel 1998 per descrivere l’incapacità degli umani di vedere le piante e riconoscere loro dignità di viventi. Un noto esperimento esemplifica la questione. Ai partecipanti al test vengono sottoposte alcune immagini dove il 90% di ciò che si vede è costituito da piante e il 10 da una presenza animale. Alla richiesta di cosa mostri l’immagine, la risposta generale indica la presenza animale. Le specie vegetali, recepite come indistinte, rimangono sullo sfondo, invisibili, ma soprattutto del tutto assenti in quanto soggetti.

San Giorgio e la foresta

La copertina dell’edizione Mondadori 1995, di Paesaggio e memoria di Simon Shama, saggio in cui si indaga la storia culturale dei miti e dei culti degli alberi e delle foreste, portandone in luce le tracce nel paesaggio, nell’arte, nelle cronache e nella letteratura, riproduce un dipinto di Albrecht Altdorfer, San Giorgio e la foresta (ca 1510). Il quadro mostra un minuscolo santo a cavallo e un altrettanto minuscolo e quasi indistinguibile drago, immersi in una lussureggiante foresta. Qui accade esattamente il contrario di quanto avviene nel test sopra citato. Scopo dell’artista è nascondere la presenza del cavaliere che si mimetizza fra la vegetazione, mutandosi quasi in presenza arborea.

Scrive Shama: «ll soggetto apparente del dipinto è un san Giorgio che sembra venuto a rendere omaggio al drago, anziché a ucciderlo. E benché il santo figuri, secondo la convenzione, come incarnazione del miles christianus, il cavaliere che combatte le forze dell'inferno, la miniaturizzazione dell'azione (in un'opera di per sé già di non grandi dimensioni) rafforza l'impressione che la foresta teutonica abbia qui un ruolo eroico pari almeno a quello del cavaliere cristiano. […] Il pannello rappresenta una vera e propria rivoluzione nella pittura del paesaggio, non ultimo per la straordinaria cura con cui Altdorfer riproduce fedelmente le convenzioni del fogliame ornamentale dell'architettura religiosa, creando così uno spazio che acquisisce forti connotazioni di sacralità. Ciò non significa, tuttavia, che gli alberi di Altdorfer siano stilizzati al punto da risultare irriconoscibili. Al contrario. È evidente il rigore scientifico dell'artista degno di un Leonardo o di un Dürer, ma il dipinto trascende il semplice accumulo di dettagli naturalistici creando lo straordinario effetto di una divorante totalità della selva, dove lo spettatore si sente quasi oppresso e accecato dal rigoglio del fogliame. […] Così, osservando come le foglie gettano luce su altre foglie, che si accumulano e si sovrappongono in successive cortine di fronde dal fitto intreccio, cominciamo a renderci conto che qui il narrato è la foresta stessa. La selva germanica non è più sfondo, è storia.»


Il saggio di Shama ripercorre la storia del contrasto, altalenante e mai lineare, fra opposte concezioni del selvatico nelle culture nordiche europee, in particolare quella germanica, che esaltavano la natura come origine e serbatoio della forza primigenia dei popoli che la abitavano, e in quelle mediterranee, in particolare classiche e poi cristiane in cui il segno della civiltà è la città, l’urbs, e il paesaggio è dominato dall’architettura, espressione del genio umano che detta regole, ordine e armonia, e la natura è lo spazio spaventoso e brutale (e, con l’avvento del cristianesimo, pagano e demoniaco) in cui operano le forze del male. Un esempio eclatante della persistenza del mito della selva nella cultura tedesca si riscontra, come ricorda Shama, nelle fiabe dei Grimm raccolte dai due fratelli anche come “arma patriottica” da opporre al nuovo impero napoleonico, erede dei valori della romanità: «È di fatto impossibile, come notano Jack Zipes e diversi altri autori, pensare alle fiabe dei fratelli Grimm senza evocare la foresta. Si tratta sempre di una foresta della Germania settentrionale: luogo di abeti, faggi, mostruose querce deformi, contorte e avvolgenti come i divoranti mostri vegetali di Kolbe o il “re elfo” degli ontani, distruttore di bambini, della stupefacente poesia “Il re degli Elfi” di Goethe. E anche li luogo dove gli Hänsel, le Gretel, i Franzl, per non dire di marinai e soldati, corrono il rischio di essere derubati, assassinati, divorati, di incorrere in mutazioni dell'aspetto, una o tutte queste cose insieme. La foresta è luogo di terrore, dunque. Ma è anche dispensatrice di giustizia. Le regole della romanità qui non valgono: lo status sociale e la forza della legge tradizionale si perdono chissà dove nei meandri dei suoi sentieri. La bambina ingrata che respinge gli elfi che le hanno portato le fragole raccolte nella neve viene severamente punita: rospi, anziché parole, le escono di bocca quando tenta di parlare. Il bandito che vuole derubare, fare a pezzi e salare la sposa ha quel che si merita al banchetto nuziale. La principessa si riunisce ai dodici fratelli da cui era stata separata li giorno della nascita. L'ordalia precede la resurrezione. Religione e patriottismo, antichità e futuro: tutto si mescola nella visione romantica della foresta. Personaggi addormentati da secoli possono tornare in vita: non ultima la stessa Germania.»


In questo passo si trova esemplarmente spiegata la duplicità simbolica assunta nel corso del tempo dalla natura di cui la foresta, la selva, è espressione centrale e di cui gli alberi sono incarnazioni fra le più enigmatiche, dotati di forza, longevità, resilienza, vitalità, miracolosa capacità di rinascita.

San Giorgio nella Foresta ©Albrect Altdorfer

San Giorgio nella Foresta ©Albrect Altdorfer

Pinocchio, Mignolina e le altre

A questo proposito vale la pena ricordare alcuni personaggi fiabeschi che dagli alberi e dal mondo vegetale hanno preso vita. Primo fra tutti, Pinocchio, pezzo di legno-bambino, interprete geniale di straordinarie avventure per terra e per mare, dotato di sovrumana energia, parabola esemplare dell’infanzia in cui si dibattono selvatichezza e domesticazione, natura e cultura, come mette in luce Veronica Bonanni nel bellissimo saggio La fabbrica di Pinocchio: «Pinocchio, per la sua costituzione legnosa che affonda le radici nel mito, assurge pertanto a simbolo dell'infanzia: la sua natura vegetale e selvatica è la più idonea metafora di quell'età della vita in cui l'uomo, non ancora civilizzato, è più prossimo alla natura. Il bambino, per la sua visione magica e il suo desiderio di libertà assoluta, appare infatti agli occhi dell'adulto come un selvaggio da addomesticare, da sottomettere alle regole della società civile attraverso il processo educativo. In questo senso la pialla di maestro Ciliegia, che liscia e leviga li pezzo di legno per digrossarlo e renderlo più presentabile, è l'immagine della violenza insita in ogni educazione, che consiste innanzitutto nel togliere, nel privare, nel contenere.»

Da un seme di orzo piantato in un vaso, in un celebre racconto di Hans Christian Andersen, nasce Mignolina, micro bambina capace di attraversare i regni naturali e, in quello ctonio abitato da un talpone, in cui dimora come una novella Proserpina, di trasformare la morte in vita (proprio come capita allo stesso Pinocchio, campione indiscusso di metamorfosi).

In L’amore delle tre melagrane, fiaba contenuta nelle Fiabe italiane di Italo Calvino (e con numerosissime versioni, fra le quali quelle di Basile e di Gozzi), tre misteriose fanciulle escono da tre melagrane; quella che sopravvive allo strano parto vegetale, subisce alcune metamorfosi: dalla morte, per mano della brutta Saracina, alla vita, e da una sua goccia di sangue germoglia un albero di melograno capace di resuscitare i morti.

Nella versione dei Grimm, Cenerentola, rimasta orfana, ottiene in dono dal padre un rametto di nocciolo (al contrario delle sorelle che ricevono vestiti, perle e gemme). Il rametto, piantato sulla tomba della madre e annaffiato di copiose lacrime, diventa un alberello abitato da uccelli magici che parlano, esaudiscono i desideri della ragazza e rivelano le malefatte delle sorellastre. Sempre nella raccolta dei Grimm, nella fiaba Il ginepro, le ossa di una madre morta e poi quelle del suo figlioletto, seppellite sotto la pianta, animano magicamente il ginepro da cui si genera un uccello fatato che, cantando, rivela i crimini di una matrigna cannibale e assassina. E si potrebbero continuare a citare esempi di questa commistione fiabesca fra umano e vegetale.

Per non parlare di come il tema si affacci fra letteratura e mito, come accade nel poema di Ovidio ricchissimo di dendro-metamorfosi, da Dafne a Narciso, da Giacinto a Mirra, da Filemone e Bauci a Clizia, a Driope, per citarne solo alcune; o nell’Eneide dove Virgilio fa spillare sangue e voce, “Quid me miserum Aenea laceras?”, dal ramo del cespuglio in cui Polidoro, figlio di Priamo, assassinato dallo zio Polimestore, si è trasformato; o nel XIII Canto dell’Inferno in cui Dante riprende la medesima situazione: «Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi», protesta il suicida Pier della Vigna, diventato pianta.

Nomi e parole

È interessante notare quanto nel linguaggio delle fiabe gli alberi e le piante in generale siano nominate con precisione, con il riferimento alla specie (ginepro, nocciolo, melograno, quercia, abete, sambuco, pero, melo, bucaneve, garofano, rosa, margherita, rapa, prezzemolo, rosmarino, lino, grano saraceno…). Nelle culture preindustriali e agricole, dove il rapporto con animali e piante era costante e quotidiano, i nomi non solo avevano un’importanza pratica decisiva, ma esprimevano il rapporto profondo e simbolico degli esseri umani con la natura. Lo spiega Gian Luigi Beccaria nel saggio I nomi del mondo, dedicato alle parole perdute: «Nella tradizione prescientifica e nella mentalità popolare la natura era vista come animata, abitata da animali-demoni e da erbe dotate di un'anima vegetale, ogni cosa aveva il suo genio, il suo spirito. Le piante, le erbe, gli animali erano collocati in un circolo di corrispondenze fra terra e cosmo. L'immanenza del divino nel cosmo allargava le possibilità e le funzioni di vegetali e animali, instaurando tra il fisico e il sovrannaturale una sorta di comunanza che diventava una pienezza animata. La natura era concepita come segnata, segno della reciprocità reversibile dei rapporti tra cose e uomini. Nei succhi, nelle foglie, nelle radici, nei fiori delle erbe era custodita un'oscura potenza. E gli animali dotati di un potere superiore. Alcuni dei nomi che li designano ci permettono ancora di percepire il sorprendente rapporto di comunicazione tra uomo e natura, di misurare l'enorme distanza che separa i cieli e le terre di oggi dalle terre e i cieli di un quasi vicinissimo ieri, animati da divinità e da demoni, mossi da forze occulte e misteriose. Tutto era pervaso dal soffio dello spirito, e ciò non nasceva soltanto dalla sfera del sogno e delle fantasie. Sussisteva una reale simbiosi tra l'uomo e il mondo vegetale, le piante, le erbe, gli odori, gli aromi, i succhi, i veleni.»

A questo proposito, è indicativo del cambiamento linguistico in corso quanto racconta Carl Safina in Alfie e io, sulla programmatica eliminazione dei nomi del mondo naturale: «Nel 2007 l’Oxford Junior Dictionary cominciò a eliminare voci come “airone”, “leopardo” e “ostrica”. Non erano abbastanza usate, dissero. Furono invece aggiunte voci come “larghezza di banda” e “chat room”. Autori famosi scrissero una lettera appassionata premendo affinché il linguaggio della natura fosse conservato. Sostenevano che un dizionario “dovrebbe contribuire alla comprensione del mondo da parte dei bambini, non limitarsi a rispecchiarne le tendenze”. Un pubblico preoccupato presentò una petizione simile, senza alcun risultato. Parole come “mandorla”, “mora” e “garofano” furono espunte a favore di “analogo”, “grafo blocco” e “celebrità”. La Oxford University Press replicò dicendo che le versioni precedenti dei loro dizionari per bambini includevano numerosi nomi di fiori “perché molti bambini vivevano in ambienti semirurali e osservavano le stagioni”. Criceto, aringa, martin pescatore, allodola, astice, gazza, sanguinerola, mitilo, tritone, lontra, bue, pantera - furono tutti cancellati. L'autore Robert Macfarlane espose l'ovvio problema: non possiamo conoscere quello che non possiamo nominare; non possiamo interessarci a qualcosa che non conosciamo. Nel momento in cui cancelliamo le parole della natura, perdiamo il desiderio di conoscerla e poi dimentichiamo come ricordarcene.»

Il popolo dell'incolto

Per tornare al nostro punto di partenza, ovvero ai boschi urbani che, dopo lunghi abbandoni, si ricreano spontaneamente, pur in aree inospitali o alterati da contaminazioni urbane e industriali, non desta stupore che questi nuovi incolti (i “boschi allo sbando” per usare una bella definizione di Sandro Campani nel suo romanzo Alzarsi presto), nel nuovo e del tutto imprevedibile ordine della sesta estinzione di massa dovuta ai cambiamenti climatici, diventino per larghe fasce di popolazione i luoghi simbolo di un possibile e ritrovato rapporto con la natura e le roccaforti di lunghe battaglie in nome di una resistenza a un mondo che, insieme alle parole, procede alla sistematica eliminazione delle cose, anzi, per essere più precisi, a quella degli organismi viventi ritenuti inutili per i sistemi economici neoliberali e capitalisti in essere.  

Prendo a prestito il termine incolto da La vita selvatica. Storie di umani e non umani, dell’antropologo Adriano Favole, appassionata disamina del ruolo attuale di quelle straordinarie aree in cui il lavoro e il pensiero di umani e non umani non solo non entrano in conflitto, ma si intrecciano e armonizzano, stabilendo nuove relazioni fra specie anche molto diverse fra loro, andando a costituire serbatoi naturali dove la vita si rigenera costantemente. In tutto il mondo, è alla profonda intelligenza e conoscenza della natura da parte delle culture native che si devono gli esempi più eclatanti di questa relazione. Alla capacità dei “popoli dell’incolto”, come li definisce Favole, si deve il raziocinio di stabilire regole ferree per la tutela e il rispetto degli organismi viventi, la cui infrazione costituisce una vera e propria profanazione a una dimensione che non appartiene all’uomo e da cui gli esseri umani dipendono, ancora, in tutto e per tutto: «I popoli che definiamo “della tradizione” e che spesso dipingiamo come legati ad antenati e proibizioni, forse andrebbero definiti come “popoli del futuro”. Società che guardano avanti più che indietro. Cultori dei discendenti, più che degli antenati» scrive Favole.

Se, come accade in Sogno di una notte di mezza estate, il bosco è il luogo dove tutto accade, nei luoghi senza boschi, senza incolti, ovvero, secondo la definizione di Favole, “spazi ad alta densità di vita”, niente può più davvero accadere. È contro questo futuro senza cambiamento dove ogni forma di biodiversità viene estromessa che si battono i numerosi comitati cittadini, come quello della Goccia, che in tutta Italia, nel tempo, sono sorti a difesa del patrimonio vegetale costantemente in pericolo, perché minacciato dall’inesausta fame di suolo che caratterizza le scelte politiche ed economiche nel nostro Paese.

Nel 2022, l’Osservatorio La Goccia, nato con lo scopo di studiare e applicare nuove soluzioni nell’area con l’obiettivo del recupero della foresta spontanea per tutelarne la biodiversità e potenziarne i benefici ecosistemici, ha sottoscritto un patto di collaborazione col Comune che prevede, come proposto a suo tempo dal Comitato La Goccia, processi ‘naturali’ di bonifica del suolo (Nature Based Solutions, NBS) oggi studiati e messi in atto in interventi non violenti, oltre che una fruizione solo parziale dell’area. 

Come scrive Favole all’inizio di La vita selvatica: «Il selvatico, l'incolto, non è il caos: è la vita che si organizza, che germoglia, che si stratifica come i coralli, che si incontra e si scontra, la vita che rinasce continuamente nei dintorni di quella organizzazione che chiamiamo "cultura". Questo libro è un invito a guardare fuori di noi.»

Il rugginoso

C’è una fiaba dei Grimm, sconosciutissima, Il Rugginoso (Der Eisenhans), in cui compare l’uomo selvatico (green man, wilderman), antico personaggio popolare presente nel folclore di tutta Europa e di altri paesi del mondo, che incarna la potenza della natura in leggende scolpite, dipinte, scritte. La fiaba si apre con il racconto della foresta riserva di caccia di un re, da cui nessuno fa più ritorno. In seguito alle misteriose scomparse, il luogo viene disertato per lunghi anni finché un intrepido cacciatore scopre che in un profondo stagno abita una mostruosa creatura così descritta: «Ci trovarono un uomo selvatico che aveva il corpo scuro come il ferro arrugginito e i capelli gli pendevano sulla faccia e gli arrivavano alle ginocchia». Catturato e portato dal Re, viene rinchiuso in una gabbia.

Un giorno, la palla d’oro del figlioletto del re finisce nella gabbia: per riaverla il bambino ruba la chiave nascosta sotto il cuscino di sua madre, la regina, e libera il Rugginoso. Poi i due fuggono insieme nella tenebrosa foresta, il piccolo appollaiato sulla spalla dell’uomo, un’immagine che richiama quella di San Cristoforo e Gesù bambino (Cristoforo, secondo la leggenda, era un uomo brusco e taciturno che viveva solo nel bosco di cui era padrone).

Nella foresta del Rugginoso, il bambino viene messo a guardia di una fonte limpida e chiara come il cristallo: la consegna è che non venga contaminata da alcun contatto, compito che per tre volte viene mancato dal principino, costretto così, ad andare alla ventura, sfidando la sorte. Prima della partenza, l’Uomo selvatico, che gli si è affezionato, diventa il suo aiutante magico e gli promette protezione. Grazie ai suoi incantesimi, il principe riesce a vincere una sanguinosa guerra fra due regni e a conquistare una principessa. Alla fine della storia, il Rugginoso si rivela essere un re potentissimo, padrone di formidabili ricchezze.

In questa fiaba si ripresenta in modo esemplare l’ambiguità con cui la natura viene raccontata, da una parte come luogo del terrore, selvaggia e oscura, e dall’altra come inviolabile serbatoio di vita e di forze prodigiose. Ma quello che è più interessante è che questa ibridazione fra le due visioni si incarna nel personaggio dell’Uomo selvatico che, rimasto fedele ai propri compiti di guardiano della selvatichezza, si rivela alla fine signore di incommensurabili ricchezze.  

Giovanna Zoboli. Giovanna Zoboli è scrittrice ed editrice. Con Paolo Canton, ha fondato, nel 2004, il marchio Topipittori, specializzato in volumi per bambini e ragazzi, di cui è editor, direttrice editoriale e artistica. I suoi libri, per bambini e adulti, sono pubblicati in Italia e all'estero. Svolge attività di studio sui temi dell’infanzia e della cultura a essa rivolta, con interventi editi da blog, cataloghi, riviste e siti di cultura, fra i quali Doppiozero. Fra i suoi ultimi titoli: “I bambini”, con illustrazioni di Enrico Pantani (Interno Poesia 2022); “Travasi” e “I fiori blu”, con illustrazioni di Francesca Zoboli, (La Grande Illusion 2018 e 2021); “Fuori da noi” (Nuova Editrice Berti 2019). Vive e lavora a Milano.

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