L’appuntamento è alle 11 del mattino, poco oltre la stazione di Villapizzone lungo via Marco Pacuvio. “Ci sono due cancelli: il primo è aperto il secondo no. Ho le chiavi e vengo a prenderti” mi ha scritto Silvia Stefanelli questa mattina, inviandomi la fotografia di un murales parzialmente ricoperto dall’edera per riconoscere il punto esatto del muro di cinta in cui fermarmi. I 42 ettari dell’area della Goccia sono interamente recintati e, per chi non c’è mai stato – come me e come la quasi totalità dei milanesi –, non è semplice capire quali e dove siano i punti di accesso. Stefanelli, via messaggio, mi ha spiegato che fino all’anno scorso entrava dall’ingresso principale, quello di via Giampietrino, ma che adesso possono servirsene solo gli addetti del cantiere .
Arrivo con un po’ di anticipo, come spesso accade in città quando ci si muove in bici. Aprendo la prima cancellata, mi si apre davanti un viottolo lungo un centinaio di metri. Qui, la prospettiva è bloccata su tutti i lati: un muro da una parte, un muro dall’altra, e in fondo la seconda cancellata di ferro, alta una decina di metri e sormontata da varie bobine di filo spinato su cui si è arrampicata una pianta rigogliosa che sembrerebbe vite americana. Pochi minuti più tardi, un porticina incastonata nella cancellata si apre, e ne spunta il viso di una donna. «Ben arrivato» mi dice, facendomi cenno di entrare.
Silvia Stefanelli ha poco più di quarant’anni, un sorriso che mette l’interlocutore a proprio agio e sa raccontarsi con generosità. È una biologa entomologa ed ecologa; si occupa cioè di insetti, in particolare di quelli forestali, e di reti ecologiche – quei “sistemi interconnessi di habitat di cui salvaguardare la biodiversità”, secondo la definizione dell’Ispra. Lavora come libera professionista e attualmente la sua attività principale è il monitoraggio di specie in aree protette in Trentino, ma ha un buon numero di altri progetti attivi. Me lo racconta mentre estrae dal retro del suo Fiat Qubo uno sgabello da campeggio; lo apre e mi fa cenno di sedermi. Lei si lascia cadere davanti a me su una catasta di ruderi su cui sono cresciute piante erbacee di vario tipo: un’interazione tra uomo e natura che mi renderò conto essere una costante alla Goccia.

Silvia Stefanelli ©Michele Turazzi
Che cosa c'è qua dentro?
«Qui non siamo ancora all’interno dell’area di studio. Il bosco comincia laggiù.» E me lo indica. Ci troviamo in effetti in una zona liminare, un ampio pratone ingiallito per l’aridità e punteggiato da vecchi alberi; a qualche centinaia di metri verso nord si apre invece una folta area boschiva color verde chiaro. «Ma non ti aspettare Yellowstone.»
Stefanelli è una dei molti professionisti che stanno attualmente monitorando e mappando l’area della Goccia. Da quando è stato definitivamente chiuso lo stabilimento industriale, nel 1994, l’intera zonaall’interno del muro di cinta è stata abbandonata a sé stessa, permettendo alla natura di reimpossessarsi degli spazi. La prima domanda a cui Stefanelli e gli altri scienziati stanno cercando di rispondere è: esattamente che cosa c’è qui dentro? Nello specifico, Progetto Natura – la Onlus con cui collabora – gestisce il monitoraggio della fauna. Insieme alla dottoressa Elisa Cardarelli, Stefanelli si occupa degli invertebrati. Per farlo, le due specialiste hanno scelto tre gruppi target: i lepidotteri (le farfalle), i carabidi (coleotteri terrestri caratterizzati da antenne e da tarsi pentameri) e la fauna del suolo (i microartropodi che vivono sottoterra).
«Il nostro scopo è creare una lista, una baseline di specie. Vogliamo capire che specie ci sono all’interno del sito e dove si trovano» mi spiega Stefanelli. «Usiamo questi tre gruppi target perché sono bioindicatori: la quantità degli esemplari e la tipologia delle specie presenti ci possono raccontare molte cose relative allo stato di salute di un territorio. I lepidotteri, per esempio, sono un gruppo tassonomico su cui c’è molta letteratura, sono facilmente riconoscibili e, in genere, formano comunità variegate, con compresenza di specie generaliste e specie specializzate. Inoltre, rispondono bene e rapidamente alle mutazioni di un ambiente. In poche parole, significa che si spostano molto e lo fanno in fretta quando cambia qualcosa nel contesto intorno a loro. Per i coleotteri carabidi il discorso è simile.»
Qual è lo stato di salute di questo luogo?
Sul terrapieno che corre parallelo a gran parte del muro di cinta spesso transitano i treni, i Frecciarossa per Torino, oltre ai regionali diretti verso l’hinterland Ovest e Nord; Stefanelli di tanto in tanto è costretta ad alzare la voce per evitare che le sue parole si confondano con lo sferragliare. «Una delle domande a cui vogliamo rispondere è: qual è lo stato di salute di questo luogo? Nasconde delle sorprese dal punto di vista biologico? E poi: se si dovranno fare in futuro degli interventi di recupero, quali aree, passami il termine, “valgono” di più dal punto di vista della biodiversità? Prima di poter formulare una qualsiasi proposta di intervento, è necessario conoscere bene la situazione attuale. Dunque, eccoci qua.»
Pensare come una farfalla.
Studi come quelli di Stefanelli dipendono dalla stagionalità e dal tempo atmosferico. Il monitoraggio dei lepidotteri si compie mensilmente e solo nella stagione calda, da aprile a settembre. Attorno al venti di ogni mese, lei viene alla Goccia e compie “una presa” – «Ma non è che prendo veramente le farfalle, mi limito a osservarle e ad annotarle» si giustifica –; ma se il periodo è molto freddo o piovoso la presa mensile salta. «Per capire quando venire, devi sforzarti di pensare come una farfalla» mi spiega. «Tu voleresti sotto un temporale o quando ci sono forti raffiche di vento? Io dico di no.»
Questo è il secondo anno di monitoraggio per quanto riguarda i lepidotteri. Lo studio sui carabidi, invece,è appena cominciato. In questo secondo caso, le prese sono bisettimanali, e Stefanelli si alterna con la sua collega. «I carabidi li prendiamo davvero, purtroppo per loro.» «Nel concreto, in che cosa consistono le “prese”?» chiedo.
A questo punto Silvia Stefanelli si alza e mi dice: «Vieni, te lo faccio vedere».
Prendiamo la sua macchina, perché se è vero che la Goccia non è ampia come Yellowstone, è altrettanto vero che non è nemmeno un semplice giardino pubblico. È qualcosa di diverso, un luogo peculiare in cui convivono i contrasti: dopo le piogge abbondanti di questa primavera, il verde è quasi accecante. Il bosco è fitto, in alcuni punti sembra invalicabile – Stefanelli mi dice che stamattina ha dovuto farsi largo tra i rovi con una roncola –, ma allo stesso tempo sono evidenti un po’ ovunque le tracce umane: tombini aperti, pali dimenticati, asfalto, ferraglia accatastata risalgono all’epoca dello stabilimento industriale; fazzoletti, sacchetti di plastica, lattine di birra accartocciate testimoniano invece una frequentazione più recente. Per una volta, tra le due anime – quella naturale e quella antropica – è la prima la più evidente.
Lasciamo il Fiat Qubo nei pressi di una casupola abbandonata lungo il sentiero perimetrale che costeggiail muro di cinta. Qui la vegetazione viene sfalciata con una certa regolarità, probabilmente per evitare che invada il terrapieno con la strada ferrata. «Con l’auto non si riesce ad andare più avanti, perché poi il sentiero è invaso dai rovi» mi spiega Stefanelli. «Sono cresciuti nell’ultimo mese e hanno invaso tutto. Tra qualche settimana saranno pieni di more.»

Studies on Lepidoptera, like those of Stefanelli, depend on seasonality and weather conditions ©Michele Turazzi
Fare il transetto.
Il sentiero perimetrale è uno dei siti migliori dove “fare il transetto”, cioè il censimento dei lepidotteri, proprio per via del fatto che la vegetazione viene spesso sfalciata. Le farfalle necessitano infatti di spazi aperti e prati fioriti. Funziona così: viene innanzitutto definito un percorso fisso, in genere un rettilineo lungo qualche centinaio di metri; si deve quindi percorrere questo tratto di strada a passo lento e regolare osservando con attenzione fino a dieci metri alla propria destra e altrettanti alla propria sinistra. Lo scopo è prendere nota di tutti i lepidotteri incontrati e fissarli su una mappa GPS dettagliata dell’area in questione. «È questa la famosa presa di cui ti parlavo» mi dice Stefanelli.
Una biologa esperta come lei riconosce le specie di farfalle più comuni solo guardandole. Nei casi in cuil’identificazione è più difficile può utilizzare il retino per catturare un esemplare e fotografarlo, in modo da poterlo poi confrontare con un manuale e arrivare a un riconoscimento certo. In ogni caso, l’esemplare viene subito dopo liberato. Non pensavo che venisse davvero utilizzato un retino con finalità scientifiche; osservando Stefanelli al lavoro, mi rendo però conto che lo strumento che lei chiama “retino” è molto più professionale dell’immagine stereotipata che avevo in testa.
Una continua sinusoide.
«Non ci sono tante farfalle oggi» mi spiega Stefanelli. «Ma non dipende dal fatto che siamo in un ex sito industriale, è una questione più generale. Non ho ancora abbastanza dati per quanto riguarda quest’anno, ma mi sembra un trend simile a quello dell’anno scorso. C’è stata una stagione primaverile strana, con un marzo molto più caldo della media, poi un aprile-maggio parecchio piovoso con le temperature che all’improvviso si sono abbassate, infine un giugno in cui la temperatura è cresciuta di colpo anche di quindici gradi. Una continua sinusoide che non fa bene ai lepidotteri. E non solo a loro.» In ogni caso, la zona che abbiamo scelto per il transetto ci riserva qualche bell’avvistamento.
Stefanelli mi indica i diversi esemplari prima ancora che io mi renda conto che stia svolazzando qualcosa attorno a me; sono rarissimi i casi in cui non riconosce la specie al primo sguardo. Mentre inseguo qualche farfalla percercare di fotografarla con il cellulare, lei apre sul suo la mappa GPS e annota ciascuna specie individuata con la relativa posizione. Il tipo di monitoraggio che stanno eseguendo alla Goccia non è quantitativo: non tengono traccia del numero totale di esemplari, solo delle specie.
Alla fine del transetto, mi elenca quelle che abbiamo individuato insieme: cavolaia minore (pieris rapae), pieride del navone (pieris napi), melitaea didyma, vanessa atalanta. Sono tutte specie abbastanza comuni in cui Stefanelli si è già imbattuta, qui alla Goccia. L’anno scorso ha censito ventiquattro specie diverse di lepidotteri, catturando circa 450 individui nel corso di cinque sessioni. Non ha rintracciato specie particolarmente salienti, mi spiega, ma, considerando l’ampiezza limitata dell’area e il fatto che non è mai stata bonificata, lo ritiene un monitoraggio soddisfacente. Rispecchia a grandi linee la biodiversità che si potrebbe trovare in un normale parco milanese. A una mia domanda diretta, si sforza di spiegarmelo meglio: «Per il momento non ho trovato cose sorprendenti che mi fanno dire: “Wow, fantastico”, ma non ho neanche trovato cose che mi fanno dire:“Cavolo, è proprio un ex-sito industriale milanese”».
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Silvia Stefanelli, biologist, entomologist, ecologist, at work in the meadows of La Goccia ©Michele Turazzi
I coleotteri carabidi.
Per quanto riguarda i coleotteri carabidi, non ci sono ancora dati da analizzare perché il monitoraggio è appena cominciato. I coleotteri, a differenza delle farfalle, non sono facili da riconoscere visivamente, e per arrivare a definire molte specie c’è bisogno di un’analisi accurata in laboratorio, mediante l’uso del microscopio, e spesso dopo aver sezionato gli esemplari in questione. Per effettuare le prese dei carabidi, lasciamo il sentiero perimetrale e ci addentriamo nel fitto del bosco.
Mentre avanziamo, Stefanelli mi esorta a prestare attenzione a dove metto i piedi perché la riccavegetazione nasconde varie insidie: da quelle consuete del sottobosco, a partire dai rovi e dalle ortiche, a quelle tipiche delle periferie urbane, come tombini aperti e ferraglia arrugginita accatastata alla rinfusa. Per orientarci, seguiamo alcuni nastri rossi e bianchi, di quelli dei lavori stradali, che lei e Cardarelli hanno legato ai tronchi per segnalare il percorso. «In effetti, quasi tutti i biologi che lavorano qui dentro usano nastri molto simili, così capita che si faccia un po’ di confusione. A volte credo di seguire un percorso tracciato da Elisa, e invece è il segnale di qualcun altro e va a finire che ci si perde...»
Yougurt, salamoia all'aceto e una punta di sapone
Per selezionare i siti in cui posizionare le trappole a caduta (pitfall traps) per i coleotteri, Stefanelli e Cardarelli hanno in via preliminare diviso il bosco con il GPS in quadranti da 25x25 metri. Dopodiché, hanno definito sei punti a sufficiente distanza gli uni dagli altri, in ciascuno dei quali hanno posizionato quattro trappole, idealmente dislocate a formare un quadrato con lati da 10-15 metri. Ci sono dunque quattro trappole in ogni punto di raccolta. Se la presa delle farfalle era un’attività bucolica ed eterea, la presa dei carabidi è invece terrena e concreta. Ogni pitfall consiste in un vasetto di yogurt, di quelli grandi, caricato con una soluzione di salamoia all’aceto e una punta di sapone. L’aceto è allo stesso tempo un’esca e un conservante: gli insetti vengono attratti dalla sostanza fermentata e, una volta imprigionati dentro il vasetto, lì rimangono finché non verranno prelevati. «C’è chi usa la birra, chi vino rosso e frutta oppure vino rosso e zucchero, altri ancora usano l’alcol etilico a settanta gradi. Genericamente, ci si serve di etanolo o fermentati» mi racconta Stefanelli. «Ognuno ha la sua ricetta della nonna...»
Ciascun vasetto viene inserito in una piccola buca, in modo che la sommità sia a filo con il terreno, e poi coperto da una tegola, che impedisce alla pioggia di penetrare ma non blocca il passaggio ai coleotteri. Lapresa, in estrema sintesi, consiste dunque nel rovesciare, aiutandosi con un imbuto, il contenuto di questi vasetti in un contenitore di plastica, che sarà portato in laboratorio; e ricaricare il vasetto con la soluzione a base d’aceto, riposizionando così la trappola in vista della presa successiva, due settimane più tardi.
Alla fine dell’ultima presa, sono le due del pomeriggio e il termometro sul display del cellulare indica 36 gradi; ma, protetti come siamo dalla canopia formata da questo boschetto, per quanto di modesta estensione e punteggiato da detriti industriali, la temperatura è di gran lunga più accettabile. Per un attimo mi perdo nella fantasticheria di trascorrere qui dentro l’intero pomeriggio, riemergendo solo nel momento in cui l’approssimarsi della sera avrebbe reso Milano vivibile anche senza aria condizionata.
Appuntamento a ottobre
Invece, meno di mezz’ora più tardi sto salutando Silvia Stefanelli di fronte alla cancellata d’ingresso, dove mi ha riaccompagnato con il suo Fiat Qubo. Sto già andando a recuperare la bicicletta, quando mi viene in mente un’ultima cosa. «All’inizio mi hai parlato di tre gruppi target per quanto riguarda il monitoraggio degli insetti. I lepidotteri e i carabidi li abbiamo fatti.» Do un’occhiata ai miei appunti e poi chiedo: «Ne manca uno: la fauna del suolo». «La pedofauna, esatto. Ma quella non si può fare adesso, fa troppo caldo. Per quella dobbiamo rivederci a ottobre, che ne dici?».
Michele Turazzi. Michele Turazzi lives in Milan and works in publishing. He has published the novel Prima della rivolta (Nottetempo 2023, winner of the Demetra Prize for Environmental Literature 2024) and the narrative reportage Milano di carta (Il Palindromo 2018).