Il quartiere della Bovisa è tra i luoghi di Milano, uno tra i più presenti nelle opere di cinema e letteratura che hanno raccontato Milano nella fase di sviluppo avviata sulle rovine del dopoguerra. Ha anche una presenza speciale nel mondo poetico, perché nelle strade del quartiere si sono intrecciate, seppure a distanza, le vite di due poeti tra i più importanti della letteratura italiana contemporanea: Maurizio Cucchi e Milo De Angelis. Del primo è da poco uscita l’ultima raccolta per Lo Specchio Mondadori, La scatola onirica, in cui come in tutta la produzione di Cucchi, Milano è sempre presente. Lo stesso si dica per De Angelis, che da poco ha pubblicato Poesie dell’inizio, testi ritrovati, scritti tra il 1966 e il 1973 e anche qui Milano è di fatto il “logos” della poesia, lo spazio di eventi e il paesaggio da dove la parola si condensa nello sguardo su Milano, diverso in termini letterari, ma accumunato da un medesimo forse baudelairiano atteggiamento verso la città, spazio di percorsi, di flânerie, fisiche e mentali, dei due poeti. Per entrambi la Bovisa è stato un quartiere fondamentale. De Angelis - ci racconterà la sua Bovisa in un prossimo articolo - ci arriva a vivere più adulto – ed è lo stesso Maurizio Cucchi a cominciare il suo racconto collocando sé stesso e Milo De Angelis nello spaziotempo del quartiere: “Milo aveva 6 anni quando io sono dovuto andare via dalla Bovisa, nel 1957, la sua famiglia abitava in viale Majno” racconta Cucchi per il quale il ricordo della Bovisa inizia dalla fine, perché è legato, anzi marcato dolorosamente, dalla morte del padre nel 1957: “Siamo dovuti venir via dalla Bovisa, dove abitavamo in via Imbriani 19”.
Quando è arrivato alla Bovisa?
Ci eravamo trasferiti lì anni prima, nel 1951, o forse inizio ‘52, avevo sette anni, la prima elementare l’avevo fatta dove abitavamo, dove era la casa di mia nonna, la prima casa che io ricordi all’inizio di Corso Buenos Aires dove sono nato in una zona che chiamavano “Il Cairo”, ora non c’è più, case di materiale scadente che si deterioravano nel breve tempo.
Come mai questo spostamento verso la periferia?
Il mio papà – continua Cucchi – aveva creato un’azienda di saldature elettriche, di marmitte per autoveicoli, in particolare per la Innocenti. Così aveva aperto un’officina in via Candiani. Così noi ci siamo spostati dal piccolo alloggio di Buenos Aires, e ci siamo trasferiti in via Imbriani 19 in una casa più grande e più nuova. Il palazzo era lo stesso dove c’era il Cinema Perla, dove vedevo spesso i film con mia madre, ad esempio mi ricordo “L’ultima volta che vidi Parigi” con Van Johnson e Liz Taylor, di cui ho ricordi di musiche e un’atmosfera di malinconia. Il Perla ora non c’è più, dopo un passaggio nel solito squallido periodo da cinema a luci rosse.
Lei, dunque, è rimasto fino al 1957.
Sì, dopo la morte di mio padre siamo dovuti andare da alcuni parenti, in via Battistozzi Sacchi, vicino viale Campania. La morte di mio padre fu un colpo anche economico, ci aiutarono degli zii, che in quella via abitavano e avevano un’attività commerciale”.
Il racconto di Cucchi è quello di una Milano sia popolare e operaia, sia di chi - come il padre Luigi, molte volte citato nell’opera del poeta, rappresentava quella tipologia di piccoli imprenditori che mettevano su imprese partendo dal basso, essi stessi dal lavoro e i valori culturali e sociali non erano così diversi da quelli degli operai. Era una città in cui “la strada era la casa degli italiani” come scrisse Carlo Levi. “La Bovisa, che ha il nome al femminile perché in era preindustriale c’era la “Cascina Bovisa” una fattoria agricola e di allevamento, si era trasformata già in un paesaggio urbanisticamente più pesante, legato proprio alla concentrazione di fabbriche. Lo aveva reso già bene dagli anni ’20 il pittore Mario Sironi, che aveva dipinto le costruzioni industriali e le ciminiere. Tutto era dominato dalle geometrie delle fabbriche e dai fumi, però in questo sfondo anonimo ne ho un ricordo di grande umanità, benché io fossi bambino. Più avanti ricordo via Bodio, dove passava la corsa del trofeo Baracchi di ciclismo c’erano i grandi campioni, tra cui Fausto Coppi e lì io andavo alla scuola elementare, la stessa frequentata da Ermanno Olmi negli anni ’40. Io l’ho fatta dalla seconda alla quinta, ricordo anche il maestro che ebbi, era anche egli un pittore, il maestro Roda, veniva dal lago d’Orta.

Via degli Imbriani. Bovisa, anni 50
Come si è trovato a fare questo passaggio di quartiere? È stato uno choc?
Mah, io ero un bambino. Anzi. Nella nuova casa, che era più grande e nuova, i miei mi avevano fatto anche la mia cameretta per cui ero contento. La Bovisa mi appariva come un quartiere tranquillo, a anche se poi spostandosi alla Bovisasca la nomea era diversa, allora non ci sia andava e io non l’ho mai vista a quel tempo. Quello è il punto in cui poi è andato a vivere Milo.
A proposito di ambiente industriale, com’era l’aria, da tutti i punti di vista? Pesante da respirare? Se non erro, via Candiani era intitolata alla famiglia proprietaria dell’omonima fabbrica di anidride solforosa.
Questo non lo ricordo, la Bovisa che frequentavo io era il suo margine sud più residenziale, e quello mi piaceva, la scuola elementare, come ho detto, era anche molto vicina, avevo la mia cameretta, per un bambino a cui piaceva studiare era l’ambente ideale. Invece mia madre non era molto contenta, tanto che spesso il pomeriggio prendevamo il tram e mi portava alla pasticceria Passerini dietro Piazza Duomo per stare un po’ in centro. Via Bodio e Via Imbriani sono l’inizio della Bovisa, ancora un limite residenziale, poi c’era l’autentica Bovisa, più spartana e quasi paesana, ed era quella oltre piazza Bausan. Finivano le case più borghesi e comincia l’altra parte di fabbriche e case di operai. Io qualche volta andavo all’officina di mio padre, gli operai in tuta e anche mio padre, tutti lavoravano, erano le micro-fabbriche, ma c’era lavoro, erano una ventina di persone.
E come era questo ambiente, riesci a darci delle immagini?
Da bambino la cosa che mi ricordo di più quando andavo se pur raramente all’officina di mio padre, erano le scintille, le ho messe anche nel poemetto in prosa “Glenn” in cui faccio dire al personaggio Glenn, controfigura di mio padre: “ho un’officina, le scintille sprizzano, l’odore del carburo fragrante, il frastuono piacevole, rassicurante”. Oltre le fabbriche, piccole, c’erano i depositi e c’erano le case basse degli operai, le osterie, chiamate “i trani”. “La Bovisa era diversa da Corso Buenos Aires, certo meno decorosa, ma c’erano ancora però grandi prati, iniziavano proprio alle spalle di via Imbriani, e lì si giocava, ci trovavamo con i bambini miei compagni di classe e si giocava a pallone, si facevano le corse. Ricordo in particolare il grande prato alle spalle della via dove abitavo, e che al tempo bisognava attraversare per arrivare al quartiere Dergano.
Altre immagini del quartiere?
Ho ricordi infantili, per flash, ricordo ad esempio un lattaio, dove compravo le figurine, oppure l’edicola in piazzale Nigra. Oppure ricordo le parole, intanto il dialetto milanese, che si parlava e lo imparavano anche gli immigrati, come i miei nonni, anche quelli che venivano dal sud. Poi ricordo certi nomi, di fabbriche, per me che avevo imparato a leggere da poco e che ho messo anche in una poesia degli anni ’90 “la Società Smeriglio” oppure “l’Officina del Gas”. Li ho messi in quella poesia in cui immagino “l’uomo della Bovisa” come fosse l’abitante di un’era geologica lontana e infatti dico che “non poteva immaginare/ che il suo avvenire, così presto/ sarebbe diventato preistoria”. Per me era paesaggio quasi fiabesco, d’avventura, mi ricordo una ciminiera, era “come un monumento/ la torre di mattoni altissima.
Un’immagine che oggi fa venire in mente proprio il sito industriale che si trova dentro il bosco della Goccia, con la sua ciminiera,
Si l’ho rivisto quel paesaggio decenni dopo, non avevo molta voglia di tornare per il dolore della scomparsa di mio padre, ma poi da adulto, anche per scrivere e recuperare ricordi che in parte ho messo anche ne “La Traversata di Milano”. Era un paesaggio abbandonato quello che ritrovavo, specie quello delle fabbriche dimesse a ridosso della stazione Bovisa, ma - come ho scritto – mi insegnava “la muta dignità delle rovine” (n.d.r., sono versi da L’ultimo viaggio di Glenn del 1999).
E come le è sembrato il quartiere di questi anni recenti?
Oggi il quartiere è diverso, nel presente è l’amico poeta Milo De Angelis che lo abita – e abita proprio dove abitavo io, in via Imbriani. Invece la vecchia Bovisa industriale è oggi dominata dal Politecnico e al posto degli operai le vie brulicano di studenti. C’è sempre “il dinosauro meccanico” del gasometro che svetta verso Villapizzone, di là dalla ferrovia. Quando ci sono tornato, molti anni dopo la mia infanzia, ma ormai 30 anni fa, mi avevano colpito le rovine delle fabbriche, quella che si è preso a definire “archeologia industriale”. Si vedono i segni della gentrificazione e nuovi progetti, ma in quel momento quando scrissi la poesia era più un campo di rovine, di abbandono.
Ma lei ricorda se c’erano, allora nel 1951, ancora tracce della guerra? Fabbricati bombardati, case con muri crollati?
No, non le ricordo, magari c’erano ma sai come bambino di sette anni avrei potuto non rendermi conto. Della guerra ho solo i ricordi e i racconti di mio padre che era stato in Russia, nel Terzo Bersaglieri, ma tracce nella città non ne ricordo. Ma sai era molto forte la spinta della ripresa della vita, dell’economia. Ho un ricordo bello, alle elementari nel 1955 il Comune regalò a tutti i bambini un libro fotografico per mostrare la ricostruzione di Milano e il sindaco nella cerimonia celebrò la rinascita veloce di Milano. È un libro che ho ancora, lo custodisco gelosamente. La Bovisa per me è stata infanzia sostanzialmente felice, correvo per il quartiere, era un luogo di brava gente che lavorava, era l’Italia che si muove in Lambretta, anche mio padre ne aveva una.
La Lambretta che è proprio in apertura del suo primo libro Il disperso: “trovata la Lambretta. Impolverata/ a pezzi. Nessuno di noi ha mai pensato/ seriamente a ritirarla”.
Si era il mezzo che usava mio padre, quasi una sua estensione. Lui veniva a prendermi in prima media dai Salesiani, dove mi avevano iscritto, e una volta andammo in tre fino al mare a Rimini! Sì, come si vede nei filmati d’epoca, di fine anni ’50, in tre sulla Lambretta. Insomma, era qual tempo lì. Però io ero contento, fino che non c’è stata la tragedia. La sua morte avviene proprio alla soglia del primo boom economico di massa, magari chissà sarebbe anche diventato ricco, perché costruiva componenti per l’industria automobilistica che sarebbe esplosa da lì in avanti. Fu poi proprio agli inizi degli anni ’60 che Milano cambiò rapidamente, il primo di diversi cambiamenti in varie epoche.
A proposito di Milano, cosa lega la poesia, sua e di altri nel ‘900 italiano, alla particolare bellezza della città, certo non immediata e sfolgorante, né storica come quella di città d’arte o città in contesti naturali belli?
Milano ha una sua bellezza opaca, ma elegante, proprio per il suo non essere eccessiva, ed è anche questa legata al lavoro. Per esempio, un certo tipo di edilizia, vecchio stile ma non tanto, fatta di palazzi costruiti da capimastri, non dagli architetti star, non la Milano dell’esplosione urbanistica dei grattacieli, di questi ultimi tempi. Era ed è, nei quartieri in cui esiste ancora, una città di edifici regolari e decorosi, nessuna pretesa, con un’idea estetica semplice di utilità e bellezza, una civiltà di rigore morale, di lavoro, di un certo tipo. Ma non dimentico quella Bovisa del lavoro umile, manuale, anche se per me sfuma in un’atmosfera onirica, ormai. Ho affidato questo sentimento ai versi che sono in Poesia della fonte: “il borgo della mente è fonte fissa/ muri di via Varè, di via Candiani, / tra le pozzanghere, i cortili, l’officina/ di Luigi Cucchi”. Era quella che chiamo “la desolazione onirica” era “verità senza bellezza/ che espone all’orizzonte la sua sottostoria/ in un recinto fradicio/ in un altrove ovunque/ non degno di memoria: impassibile/ senza pietà”.

L'ultimo viaggio di Glenn ©Maurizio Cucchi
Mario De Santis. Mario De Santis nato a Roma vive a Milano dal 2001. Giornalista, si occupa di libri da molti anni, ora segue soprattutto poesia e contemporaneo. Scrive per TuttoLibri, Repubblica, Huffingtonpost, Doppiozero e altre testate. Ha scritto quattro raccolte di poesie, l’ultima è “Corpi Solubili” (2023, GiallaOro Pordenonelegge)